domenica 15 novembre 2015

L’Isis è solo manovalanza? E’ il capitalismo criminale che ci vuole in guerra?

Che strano! A dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo” (le cui indagini sono state secretate dal governo d’oltralpe), con le forze dell’ordine francesi costantemente in allerta, 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati a Parigi hanno potuto mettere a segno sette attacchi simultanei in pieno centro.
O quelli della Suretè debbono darsi all’ippica o c’è qualcosa di strano che dobbiamo assolutamente capire.
Và ricordato che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria, guarda caso, in compagnia del senatore John McCain.
Occorre aggiungere altro?
Forse, sì: questo accade a 14 anni dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi.
Si sente o no puzza di bruciato?               
(El Niño)

E adesso siamo davvero in guerra. «Tutta la vita politica europea sarà sconvolta per sempre», dice Giulietto Chiesa, secondo cui d’ora in avanti ogni disagio sociale sarà rubricato come problema di ordine pubblico: «La nostra vita diverrà un eterno passaggio attraverso un metal detector». Lo sanno bene i politici che balbettano di fronte alla strage di Parigi, che espone al ridicolo l’intero dispositivo francese della sicurezza: a dieci mesi dalla mattanza di “Charlie Hebdo”, non meno di 70-80 professionisti armati, alloggiati, organizzati e coordinati nella capitale transalpina hanno potuto mettere a segno 7 attacchi simultanei in pieno centro. «Vuol dire che è meglio che quelli della Suretè si diano al giardinaggio», scrive Aldo Giannuli. Possibile che gli uomini di Hollande si siano fatti sorprendere così? Peraltro, se si pensa che siamo a 14 anni dall’attentato alle Twin Towers, dopo tre guerre (Afghanistan, Iraq e Libia) e un mare di soldi spesi, «qui la disfatta non è solo dei francesi, ma di tutta l’intelligence occidentale». Puzza di bruciato? Se ne accorge persino il mainstream: Paolo Pagliaro, nella trasmissione “Otto e mezzo” condotta da Lilli Gruber su “La7”, ricorda che l’Isis è stato finanziato da Turchia e Arabia Saudita, ed equipaggiato dagli Usa. Il vicepresidente Joe Biden riconobbe, tempo fa, che le armi inviate ai “ribelli” anti-Assad erano “finite” tutte alle milizie jihadiste del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, l’uomo fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain.
«La Russia, con il suo intervento in Siria, ha cambiato il quadro politico mondiale», osserva Giulietto Chiesa su “Megachip”. «Il piano di ridisegnare la mappa medio-orientale è fallito. Daesh è, di fatto, sconfitta là dov’è nata. Dunque i suoi manovratori spostano l’offensiva in Europa». Obiettivo chiarissimo: terrorizzare il vecchio continente e costringerlo sotto l’ombrello americano. «A mettere a posto la Russia penserà Washington. Del resto l’Airbus abbattuto nel Sinai, in termini di sangue russo innocente, è equivalso al massacro parigino. E non ce ne eravamo accolti». Merkel e Hollande, i due leader che «stavano cambiando rotta per uscire dal cappio americano», sono avvertiti. E mentre i Renzi di tutta Europa non osano affrontare le telecamere non sapendo cosa dire, ci si domanda inevitabilmente chi siano i manovratori del potente e vastissimo gruppo di fuoco che ha potuto fare quello che voleva, nel pieno centro di Parigi. «L’Isis è creatura di una Spectre composta da pezzi di Occidente e petromonarchie del Golfo», annota Chiesa. «Qualcuno la guida, ed è molto potente, carico di denaro e di armi. Il fanatismo è la sua facciata. Ma non spiega la sua “intelligence”». Una traccia l’ha fornita un anno fa Gioele Magaldi col suo libro “Massoni”, edito da Chiarelettere: una delle 36 Ur-Lodges, vertice massonico del potere mondiale, avrebbe un debole per le stragi e la strategia della tensione. Si chiama “Hathor Pentalpha” e, secondo Magaldi, annovera tra i suoi leader il capo del centrodestra francese, Nicolas Sarkozy. Obiettivo strategico: annullare la democrazia, anche a colpi di attentati, per riconsegnare ilpotere all’élite più reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Quella che lavora per scenari da Terza Guerra Mondiale.
Sorta nel 1980 quando George Bush fu sconfitto da Reagan nella corsa alla Casa Bianca, la “loggia del sangue e della vendetta” avrebbe promosso l’apocalisse dell’11 Settembre, punto di partenza della “guerra infinita” che da allora sta destabilizzando il pianeta. Oltre ai Bush, dal vecchio George Herbert al figlio George Walker fino al fratello, Jeb Bush, tra gli alfieri della “Hathor” figurerebbero anche Tony Blair, l’uomo da cui nacque l’invenzione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, nonché un leader autoritario come il turco Ergogan, appena rieletto con un plebiscito da una Turchia abbondantemente terrorizzata con un’ondata di paurosi attentati molto simili a quello di Parigi. Nel nome “Hathor”, spiega Magaldi, c’è il richiamo diretto all’Isis: Hathor è l’altro nome della dea Iside, molto popolare nel milieu massonico, compreso quello dei “controiniziati” che userebbero a scopo di potere – e con sanguinario cinismo – la propria conoscenza esoterica, fatta anche di precisi riferimenti simbolici. Sempre su “Megachip”, Roberto Quaglia ricorda la passione di Christine Lagarde (Fmi) per la numerologia, e osserva che la strage parigina è avvenuta un venerdì 13, nell’11esimo mese dell’anno e nell’11esimo “arrondissement” di Parigi.
La maggior parte delle vittime, quelle del teatro Bataclan, erano spettatori di un concerto di heavy metal, sul palco c’erano gli “Eagles of Death Metal”. «Due settimane prima, a Bucarest (nota una volta come “la piccola Parigi”), in una strage su scala minore oltre 50 ragazzi perivano nel rogo sviluppatosi durante un concerto heavy metal, evento che ha rapidamente portato alla caduta del governo rumeno e l’instaurazione di un governo “tecnico” più eurocratico che mai», aggiunge Quaglia. Frequentare concerti heavy metal sta iniziando a farsi pericoloso? «Ciò detto, buona Terza Guerra Mondiale a tutti». Secondo Quaglia, all’Isis «non bastava venire bombardata dalla Russia con bombe vere», tenendo conto che quelle sganciate dagli Usa erano, di fatto, rifornimenti. «L’Isis vuole che anche la Francia ora si faccia avanti per bombardarli e, possibilmente, che invii anche truppe di terra per combatterli meglio. Cosa c’è di strano? Ha già annunciato simili attentati pure a Roma, Londra e Washington». Evidente la strategia: coinvolgere l’Europa nell’opzione-guerra, quella su cui scommettono dal 2001, ininterrottamente, le “menti” dell’11 Settembre, capaci di “inventarsi” come nemico pubblico prima l’ex uomo Cia in Afghanistan, Osama Bin Laden, e ora il bieco “califfo”, capo di un’orda di tagliatori di teste, completamente indisturbati fino all’entrata in azione, in Siria, dei bombardieri di Putin.
Non era già Bin Laden, continua Quaglia, a sperare che – 14 anni fa – l’Afghanistan venisse bombardato e l’Iraq invaso? «Dopotutto fu proprio questo che egli ottenne». La solite malelingue sostengono che Isis è stato creato dagli Stati Uniti? E pazienza «se fra le malelingue c’è il generale francese Vincent Desportes, cosa volete che ne sappia uno come lui?». E le foto di Al-Baghdadi con McCain? «A chi non capita, dopotutto, di trovarsi per sbaglio assieme a personaggi sgradevoli che passavano di lì per caso?», scrive Quaglia, con sarcasmo: «Potrebbe accadere ad ognuno di noi». Alla vigilia dell’attentato di Parigi il capo della Cia si sarebbe incontrato col responsabile dei servizi segreti francesi? «Probabilmente questa gente va insieme a bersi una birra più spesso di quanto pensiamo – e cosa c’è di male?». Come spesso accade in questi casi, aggiunge Quaglia, le informazioni della strage su Wikipedia sono apparse a velocità da record: «Pare che alcuni fatti (una dichiarazione di Hollande) siano stati riportati addirittura prima che accadessero. Ma a questi piccoli miracoli siamo ormai abituati: i più smaliziati ricorderanno la Bbc annunciare l’11 settembre 2001 il crollo del Wtc7 con 20 minuti di anticipo rispetto al fatto».
E siamo anche abituati ad altre puntuali “coincidenze”: tutte le volte che i terroristi colpiscono, qualche esercitazione antiterrorismo è sempre in corso. Accadde a New York l’11 Settembre, a Londra il 7 luglio 2005. Stavolta, a Parigi, la polizia era accorsa in forze alla Gare de Lyon per un allarme bomba. «E sempre per un “allarme bomba” lo stesso giorno è stato fatto sgomberare anche l’albergo dove si trovava la squadra nazionale tedesca di calcio, in città per l’incontro serale con la Francia. Dite che è poco?». Quel giorno, infine, era in corso «anche un’esercitazione completa proprio per il caso di un multi-attacco, che coinvolgeva polizia e pompieri, esattamente come in tutti i casi più eclatanti di terrorismo che ci hanno propinato». Secondo Quaglia, è impossibile non leggere una precisa regia dietro tutti questi eventi. Tanto più oggi, dopo la recente decisione del governo Hollande di apporre il segreto di Stato alle indagini sulla strage di “Charlie Hebdo”: i magistrati avevano scoperto che le armi provenivano da una strana triangolazione tra Slovacchia, Belgio e servizi segreti francesi. Realtà occulta, spaventosa e “inaccettabile”, come quella disegnata da Gioele Magaldi? «E’ previsto che ve ne rendiate conto a puntate, così da non farci troppo caso», conclude Quaglia. «Avete mai sentito la ricetta di come vanno bollite le rane così che non saltino fuori dalla pentola?».
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venerdì 13 novembre 2015

Le logiche criminali dell’attuale capitalismo predatorio

La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.
Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.
Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.
Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.
Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.
Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.
Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.
La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.

Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro

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domenica 8 novembre 2015

Basta subire: serve una sinistra antieuro

La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo. Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%.
La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano di alcuni difetti costitutivi. Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresentano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media. La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco. Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista.
Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità. Tuttavia ciò è possibile solo se inEuropa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di un ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici e a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro.
Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea. Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato com’era dalla Bundesbank. Ma nel sistema euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore. A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie. Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana. Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai.
La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione. Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale. Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia.

Oskar Lafontaine, “Lettera alla sinistra italiana”, ripresa da “Contropiano” il 14 ottobre 2015. Già ministro delle finanze della Germania, Lafontaine è stato presidente dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco, e poi fondatore della Linke, il partito della sinistra

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venerdì 3 giugno 2011

La vera Storia del Risorgimento - L'invasione violenta e repressiva del Regno delle Due Sicilie

Non si può festeggiare il 150° anniversario dell'Unità d'Italia senza riconoscere l'altra Storia del Risorgimento come l'invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie nel 1860, prima dall’epopea farsesca dei mille di Garibaldi e, poi, dall'esercito piemontese, con 120 mila uomini al comando del Generale Cialdini.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi andando alla festa dei giovani del PdL, - in un momento di lucidità in cui, forse, gli funzionava l’unico neurone che possiede, non distratto dal Bunga Bunga, - li ha caldamente esortati a leggere due libri, Risorgimento da riscrivere” di Angela Pellicciari e “Le grandi menzogne della storia contemporanea” di Sandro Fontana.
Il premier ha detto che occorre correggere ciò che è stato scritto erroneamente della nostra storia. E, se il libro della Pellicciari è stato provocatoriamente definito da Chiarini su Il Riformista il manifesto dell'anti-Risorgimento. Conoscendo la scarsa affidabilità intellettiva ed intellettuale del personaggio e, quindi, senza troppo enfatizzare, significa che comunque anche un capo di governo italiano prende atto che bisogna raccontare la vera Storia del Risorgimento, che non è quella mitologica raccontata nelle nostre scuole.
Certo non esiste solo il pur brillante libro della Pellicciari, ce ne sono altri, non ultimo Due Sicilie 1860 - L'invasione” di Bruno Lima, edito da Fede & Cultura di Verona (www.fedecultura.com), che è magnificamente documentato con una fitta rete di note e citazioni a piè di pagina e con una completa appendice documentale. Il libro di Lima - scrive Carlo Alberto Agnoli nella prefazione - si colloca in quel filone di opere che i custodi della versione ufficiale della storia e, con essa, dei programmi scolastici su cui vengono formate le nuove generazioni, si sono sforzati di screditare ricorrendo all’espressione ad effetto 'revisionismo storico' e alle parole esorcizzatrici 'dietrologia' e 'complottismo' a cui indirizziamo tutti i nostri… vaffa…
E, nonostante i cani da guardia di quelli che stabiliscono quale sia la 'storia patria' vigilano pronti a stroncare ogni tentativo 'revisionista', il muro della leggenda risorgimentale comincia a presentare vistose crepe, anche se ancora permane purtroppo nei testi scolastici.
Il libro di don Lima si struttura in due parti, nella prima, il testo sostiene che l'invasione del Regno delle due Sicilie è stata una congiura internazionale accuratamente preparata e programmata in particolare dal governo inglese, da Palmerston e Gladstone.
La Gran Bretagna vide nelle ambizioni del governo di Torino - utile idiota - lo strumento per attuare la sua politica di egemonia nel Mediterraneo.
La realizzazione del piano destabilizzatore, dopo essere stata predefinita sulla carta, richiese in primo luogo la cospirazione intestina finalizzata alla corruzione delle classi dirigenti con promesse di bottino ai danni del Popolo e, se volete, anche della Chiesa, che una volta tanto ne esce lei vittima.
Vittorio Emanuele II, definito ‘re galantuomo’ ha aggredito senza nessuna giustificazione uno Stato sovrano come quello delle Due Sicilie ed ha perseguitato i cittadini con sadico cinismo, per giunta cercando di giustificarsi con la falsa teoria che i popoli meridionali hanno chiesto aiuto, il famigerato grido di dolore , tra l'altro, mai levatosi.
Gli inglesi approntarono una campagna diffamatoria, basata su calunnie diffuse in tutta Europa a danno dei Borboni e delle Due Sicilie, dipingendo gli uni come tiranni spietati e i loro sudditi come popoli semibarbari. Bisognava fare terra bruciata attorno al nemico. Più avanti lo stesso Gladstone confessò di essersi inventato tutto. Si doveva far passare il piano eversivo di pochi uomini senza scrupoli, prezzolati dallo straniero, quale spontanea rivolta popolare.
Fecero passare per epiche battaglie delle pallide scaramucce che consentirono a una masnada male assortita di banditi, ladri ed ex galeotti d’impadronirsi di un magnifico regno quasi senza far uso delle armi se non nella fase finale della conquista.
Scrive Lima: “Tutto sarebbe stato vano se i fedelissimi soldati delle Due Sicilie avessero avuto la possibilità di battersi contro questa ciurmaglia di miserabili scalzacani. In pratica, la fantasmagorica passeggiata da Marsala a Napoli, non sarebbe mai avvenuta.
Nel 2° capitolo, Bruno Lima smonta la retorica risorgimentale del mito dell'impresa dei mille. Se non fosse per l’orribile scia di sangue e di sciagure umane che hanno lasciato, ridurrebbe quelle parodie di gesta militari agli atti di una commedia.
Dopo aver descritto la figura di Giuseppe Garibaldi, un avventuriero, nelle mani delle lobbies massoniche internazionali, molto lontano da quell'oleografia creata apposta per lui, viene descritta la cosiddetta campagna di pirateria di conquista del Regno borbonico, favorita essenzialmente dal tradimento degli alti ufficiali dello sprovveduto Francesco II, i vari Landi, Lanza, Clary, Brigante, tra l'altro rimasto ucciso dalle sue truppe perché riconosciuto traditore. E, infine, l'onnipotente ministro Liborio Romano, colluso con i piemontesi e con la criminalità locale, ansioso di consegnare Napoli al nemico.
Ma i fatti d'arme non cessarono con l'esilio di Francesco II, ospite di Pio IX a Roma. Il decennio 1860-1870, soprattutto nei primi anni, fu contrassegnato da una fiera resistenza armata che gli occupanti dileggiarono col nome di ‘brigantaggio’ per nascondere agli occhi del mondo il loro sopruso e giustificare in tal modo gli innumerevoli crimini contro l'umanità di cui si macchiarono con raro cinismo.
La seconda parte del libro affronta l'invasione delle Due Sicilie dal punto di vista giuridico, sostenendo la totale illegittimità internazionale dell'occupazione piemontese.
In pratica, i popoli delle Due Sicilie vennero privati della loro libertà e soggiogati da un esercito straniero, derubati dei loro beni privati e pubblici, imbavagliati con l'imposizione di un regime di terrore ufficialmente legittimato da plebisciti farsa.
Per sottrarsi a un destino senza speranza, milioni di meridionali non ebbero altra scelta che abbandonare per sempre il loro paese. Così, l'immenso tesoro del Regno, che ammontava a 443,2 milioni di lire del tempo, fu sperperato per sanare il devastante debito pubblico piemontese.
Una volta pagati i debiti dei guerrafondai piemontesi, traslocate al Nord le ricchezze meridionali, i governanti di Torino pianificarono scientificamente il perpetuo declassamento della società civile del Sud. L'accanimento nel saccheggio del Mezzogiorno - continua Bruno Lima - e lo sfruttamento incontrollato dei suoi abitanti produsse uno stato di miseria riconducibile storicamente solo alle depredazioni barbariche e a quelle dei pirati berberi.
Il Sud, messo in ginocchio, da questo momento storico non si risolleverà mai più. Oltre al danno, si ebbe la beffa: i popoli meridionali furono anche colpiti da un ignobile terrorismo psicologico, quello di essere grati ai loro persecutori, che, a loro volta, avevano imposto una aberrante esaltazione del mito risorgimentale attraverso la sistematica falsificazione della verità storica.
L'autore del libro è consapevole che le sue tesi potrebbero apparire esagerate e scandalose, visto che ormai da tanto tempo c'è l'abitudine di vedere il cosiddetto Risorgimento Italiano con gli occhi di una manualistica pesantemente condizionata dal falso mito di cui esso è stato circondato.
Comunque sia, stando agli avvenimenti, avulsi da ogni spirito di parte, si constata inevitabilmente, nei falsi eroi del Risorgimento e dalle stragi subite dai cittadini meridionali che non accettavano l’invasione, l’effettiva sussistenza di categorie giuridiche che oggi si è soliti collegare a tragedie umane più note e recenti quali lo sterminio degli armeni, l'olocausto ebraico, il dramma italiano delle foibe, gli eccidi compiuti dai diversi regimi comunisti sparsi nel mondo, fino ad arrivare alla guerra nella ex Jugoslavia e nel Ruanda, non tralasciando il Sudan con i suoi milioni di morti cristiani.

Molto liberamente tratto dal lavoro di Domenico Bonvegna
http://www.mascellaro.it/
http://www.fattisentire.org/modules.php?name=News&file=article&sid=3280
 

mercoledì 1 giugno 2011

Storiografia bizantina: quello che non dicono i libri di storia

La storiografia contemporanea più diffusa relativa alla storia dell’Europa medioevale, in particolare bizantina, ci offre una visione ancora troppo limitata.
Ai giovani del liceo scientifico o del liceo classico si presenta un’Europa medioevale che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, attraverso Carlo Magno fino alle Crociate ed oltre, è sempre comunque protagonista del faticoso percorso dell’evoluzione storica a scapito degli avvenimenti dell’Impero romano d’Oriente. Nella peggiore delle ipotesi i Bizantini non compaiono nemmeno, dimenticati nel loro “angolo” sud-orientale d’Europa. Gli unici concorrenti della così detta civiltà occidentale sembrano essere solo gli Arabi, per la perdurante influenza delle tesi di H. Pirenne. Ma è giunto il momento di mostrare agli allievi l’altra faccia della medaglia, quella molto più complessa e diversa che non appare ancora oggi nei manuali di storia. Dal VII secolo d.C. all’XI secolo, con alterne vicende, il Mediterraneo non è un lago arabo e la parte centro-meridionale del continente europeo non è esclusiva riserva di caccia dei Longobardi, dei Franchi o di tutti gli altri Barbari provenienti dall’Est europeo. Al contrario Bisanzio vi svolge un ruolo di primo piano, diventando nel Mediterraneo una potenza egemone.

Il sistema tematico: punto di partenza della rinascita bizantina

Come si manifesta, si concretizza e si sviluppa questo processo egemonico nel Mediterraneo? Di fronte all’avanzata araba nel Mediterraneo, l’Impero bizantino sviluppa un sistema difensivo unico al mondo: il sistema dei temi che nasce dall'esigenza di adeguarsi praticamente e rapidamente alla nuova situazione storica imposta dall'offensiva araba nel bacino del Mediterraneo. I temi sono essenzialmente unità amministrative, fiscali, militari. Essi svolgono la funzione di nuovi distretti militari autonomi all’interno di un Impero che comunque non perde mai il suo carattere centralizzato e totalitario.
I soggetti principali dei temi sono i contadini che in essi svolgono eminentemente due funzioni: quella produttivo-fiscale e quella militare. La proprietà e la coltivazione dei campi obbligano i contadini non solo alla contribuzione fiscale, ma anche alla leva militare.
A partire dal VII secolo in poi gli imperatori bizantini impongono ai loro sudditi rurali gran parte dell’onere necessario al mantenimento della costosa  macchina amministrativa e militare bizantina. Essi, bene o male, si adeguano a tale, in parte forzosa, richiesta perché essa evidentemente fino all’XI secolo consente sufficienti margini di sopravvivenza e sicurezza sociale e militare, ma anche notevoli elementi di dinamismo sociale ed economico sconosciuti ad esempio nell’Impero carolingio.
Nel confronto con lo statico, conservativo e conservatore sistema carolingio si può cominciare ad avvertire tutta l’enorme carica  progressiva ed innovativa dell’Impero bizantino che, in questo periodo, cioè dal VII all’XI secolo non è affatto quel monolito ingessato che tanta storiografia occidentale ha trasmesso all’immaginario collettivo di giovani ed alunni.
I temi bizantini amministrati e governati da uno stratega, che a sua volta, dipendeva direttamente e unicamente dal Basileus offrono non poche occasioni di ascesa sociale a una popolazione rurale che vede nell’espansione dei confini soprattutto ad Oriente, ma anche ad Occidente, accrescere la proprietà della terra strappata agli infedeli. In questo modo i contadini bizantini hanno buone ragioni per difendere l’Impero. La regolarità e la relativa abbondanza del prelievo fiscale consente al Basileus il consolidamento  di una eccellente burocrazia, del resto di antica tradizione romana, e la riorganizzazione di una flotta militare al servizio di una strategia di intervento globale nel bacino del Mediterraneo.
In questo periodo, al contrario, l’Impero carolingio e gli imperatori romani d’Occidente sono vittime di un sistema feudale che non solo non coinvolge i contadini, ma li emargina e li schiaccia..
Il prelievo fiscale è irregolare ed inefficace, rendendo impossibile la costituzione di una regolare ed efficiente  macchina amministrativa e militare.
Le principali unità amministrative dell’Impero bizantino erano concentrate in Asia Minore che fino all’XI secolo rimane il fulcro economico, agricolo e militare della comunità bizantina.

La flotta come fattore strategico apripista del commercio mediterraneo

La regolarità del prelievo fiscale e l’efficienza e l’efficacia del capillare sistema amministrativo bizantino consentono l’allestimento e il mantenimento di una poderosa e tecnologicamente avanzata flotta militare, al contrario dell’Impero carolingio e dei suoi successori che non riusciranno mai a dotarsi di una marina da guerra degna di questo nome. E anche per questo dovettero ricorrere al sostegno della marina militare bizantina, rinunciando di fatto al controllo del Mediterraneo con gravi conseguenze al loro interno.
Dal VII secolo all’XI secolo la flotta militare bizantina costituì l’elemento tattico e strategico determinante ai fini del dominio bizantino nell’intero bacino del Mediterraneo. Essa fu riorganizzata nel VII secolo per contenere e annientare l’avanzata araba nel Mediterraneo che puntava alla conquista della capitale, Costantinopoli.
Il compito della flotta militare bizantina, come quello dell’esercito, era strategicamente ben determinato: massimo sforzo in Oriente, centro nevralgico dell’Impero, da sempre, minimo sforzo nell’Occidente meno importante nel quadro della politica globale bizantina e considerato sia dal punto di vista politico che economico in una situazione da Terzo Mondo. Le fonti occidentali, franche e longobarde, non si sono mai rese conto del loro peso specifico minimo all’interno dello scacchiere internazionale bizantino e arabo.
Spesso e volentieri l’esercito e la marina militare romano-orientale agivano di concerto, avendo sempre come base di appoggio strategico e logistico la formidabile fortezza di Costantinopoli: dalla capitale partivano le vie di comunicazione più importanti dell’Impero, sia quelle terrestri che quelle marittime.
Il porto di Costantinopoli poi accoglieva il nerbo della flotta militare. A Costantinopoli era dislocato il comando militare strategico, ma anche il centro del potere politico e religioso. Tentare di occupare la capitale dell’Impero romano di Oriente e della cristianità ortodossa, Costantinopoli, la città “desiderio del mondo”, fu per gli Arabi una necessità storica, ma anche un sogno che non si concretizzò mai.
La tecnologia navale militare degli Arabi fu sempre inadeguata rispetto alle possibilità dei Bizantini che in questo campo rivelarono doti pratiche e scientifiche degne della loro conclamata origine e tradizione greco-romana. I Romani d’Oriente ebbero sempre facile accesso alle materie prime strategiche: le riserve di legname utili alla costruzione di navi militari abbondavano sia in Europa che in Asia Minore. Gli Arabi non disponevano di rilevanti risorse forestali nei loro territori, per lo più aridi, né seppero mai costruire navi della portata e della potenza di quelle romano-orientali. Le maestranze bizantine erano inoltre molto più esperte di quelle arabe in abilità e perizia marinaresca.
Ma l’arma segreta, l’arma totale, che diede alla flotta imperiale il dominio globale nel Mediterraneo non solo contro gli Arabi ma contro tutti i nemici, compresi i Carolingi, per quello che potevano valere sul mare, cioè molto poco, fu il fuoco greco, un’arma terribile. Essa fu inventata da un ingegnere siriano, Kallinikos, profugo da Eliopolis, all’incirca nel periodo del primo assedio arabo di Costantinopoli nel 674-678. Fu scoperto giusto in tempo per consentire ai Romani d’Oriente di costruire una flotta attrezzata con una apparecchiatura per lanciare napalm. La flotta romano-orientale bruciò completamente le navi arabe e i loro equipaggi.
Gli elementi costitutivi della miscela del fuoco greco furono gelosamente custoditi e tenuti segreti per lungo tempo. Soprattutto i Bizantini cercarono sempre di controllare, quanto meno indirettamente, tutta la regione dal Nord del Caucaso fino alla Mesopotamia settentrionale, perché in questa area erano reperibili e disponibili le più rilevanti riserve di “benzina” a cui neanche gli Arabi poterono mai accedere anche quando si impossessarono del segreto del fuoco greco.
Sotto l’ombrello protettivo di questa poderosa organizzazione militare ed economica fu relativamente facile alla elite dirigente di Bisanzio aprire e quasi monopolizzare i flussi commerciali nel bacino del Mediterraneo.

Il sistema commerciale bizantino

Quali sono le caratteristiche della politica economica e non solo economica dell’Impero bizantino nel mondo mediterraneo e orientale? Qui ancora una volta i nostri manuali di storia, come le fonti occidentali medioevali e la “vulgata” imperante forniscono un’immagine distorta e fuorviante: semplicemente i Bizantini non esistono come “produttori” di politica e storia nel Mediterraneo. La realtà storica dell’indagine scientifica più recente è del tutto diversa se non opposta a tale vulgata.

L’attività produttiva e commerciale per una politica di prestigio

Abbiamo già visto i Romani d’Oriente costituirsi un solido apparato produttivo e militare all’ombra del quale i commerci bizantini prosperarono con relativa facilità nel Mediterraneo. All’espansione non solo commerciale di Bisanzio nel Mediterraneo contribuirono anche l’abile e spregiudicata diplomazia e gli stessi monaci. Là dove gli eserciti, la flotta e il commercio non riuscivano nel loro compito “avvolgente”, ci pensavano gli agenti ufficiali e segreti della diplomazia affiancati da quegli altri “agenti” culturali e religiosi che erano i monaci. Tutta l’attività economica dell’Impero bizantino, ma anche altre attività, come quella culturale e religiosa, erano tutte finalizzate a una politica di prestigio. Gran parte della produzione e del commercio romano-orientale era considerato strategico ed essenziale alla politica di dominio globale dello stato Bizantino nel Mediterraneo e quindi soggetto ad un ferreo controllo dello Stato attraverso la sua massima espressione, l’imperatore.
La produzione e il commercio del legname e del petrolio erano rigorosamente controllate e limitate. Conseguentemente le aree geografiche della Mesopotamia, del Caucaso e dell’Asia Minore assumevano un valore economico e strategico enorme nella politica bizantina, perché qui vi erano concentrate grosse riserve di legname e petrolio utili per la fabbricazione delle navi e del fuoco greco.
Quando i Romani d’Oriente, attraverso il loro agguerrito e sofisticato servizio di informazioni, venivano a sapere che alcune città autonome dell’Italia meridionale esportavano legname, materiale strategico, essi adoperavano in questi casi l’arma dell’ “embargo”, cioè vietavano a queste città la vendita del materiale strategico. L’altra produzione bizantina soggetta, secondo le direttive politiche, a forti limitazioni nella esportazione e nella vendita, era quella serica di cui il governo bizantino aveva il monopolio. Era anch’essa una sorta di merce strategica perché fortemente desiderata e richiesta dalle élites barbare d’Occidente e dei Balcani. Essa consentiva agli imperatori di Costantinopoli di prendere, in un certo senso, “per la gola” i tirannelli locali longobardi o slavi che ne facessero richiesta.
La costruzione di fortezze e, in genere, di grandi opere militari per conto terzi era un’attività molto remunerativa per i Bizantini che, a caro prezzo, prevalentemente politico, si facevano pagare queste prestazioni d’opera elargite con estrema parsimonia ai piccoli e grandi sovrani d’Occidente e dei Balcani.
Il flusso delle merci di lusso provenienti dall’Oriente estremo era sapientemente e attentamente filtrato da Bisanzio nei suoi accessi orientali: spezie, profumi, stoffe e pietre preziose, oro ed altro ancora proveniente dall’Oriente veniva “ricaricato” e venduto in Occidente a prezzi stratosferici.

L’Occidente nel sistema bizantino

Le officine bizantine, per lo meno fino all’XI secolo, inondarono il Mediterraneo dei loro prodotti più rinomati: oreficeria, argenteria, avori, mosaici, stoffe preziose ed altro ancora, tutti i prodotti, come si direbbe oggi, ad alto valore aggiunto. I clienti e i consumatori di queste pregiate produzioni bizantine furono i principi e la nobiltà dell’Europa occidentale medioevale e dei Balcani.
Anche se il cuore delle attività produttive romano-orientali rimaneva l’Asia Minore anche per la produzione mineraria, la parte occidentale dell’Impero cominciava a decollare soprattutto nell’XI secolo in quella che era ancora la provincia bizantina, anzi il Catepanato bizantino d’Italia.
Fin quasi all’XI secolo le città autonome dell’Italia meridionale bizantina insieme all’enclave settentrionale di Venezia, erano state gli avamposti commerciali privilegiati dell’Impero bizantino. Essi avevano svolto il ruolo di “cavalli di Troia”: attraverso Amalfi, Napoli, ma soprattutto Venezia l’Impero romano-orientale era penetrato economicamente e culturalmente fino al centro dell’Europa carolingia e oltre. L’entroterra dell’Europa continentale carolingia era divenuto il mercato neo-coloniale dei mercanti bizantini, ma anche la palestra di esercizio per diplomatici ufficiali e segreti e per monaci fedelissimi al basileus costantinopolitano. Purtroppo, nei nostri manuali di storia, tutto questo è completamente ignorato e forse anche volutamente, perché la storia, come è successo in America latina, è la storia dei vincitori e i Bizantini e l’ortodossia sono stati vincitori fino all’XI secolo nell’ecumene mediterranea. Dall’Occidente i Bizantini, quindi, ricavano un notevole flusso d’oro perché i principi locali dovevano pagare in oro e questo flusso aureo con direzione Bisanzio finiva col depauperare ulteriormente l’Occidente come i Balcani. Lo sfruttamento dell’Occidente da parte bizantina fu aggravato dalla svendita delle risorse forestali e degli schiavi.

Gli aspetti tecnologici del dominio bizantino

Sul piano tecnologico l’Occidente ma anche l’Islam, per lo meno fino all’XI secolo, si dimostrano nettamente inferiori ai Romani d’Oriente, eredi della tradizione ellenistica molto attenta alle sperimentazioni tecnologiche messe però al servizio dello Stato, perfettamente in linea con Bisanzio.
Il fuoco greco, l’arma segreta e totale dei Bizantini, inventata da Kallinikos, ingegnere siriano, profugo da Eliopolis all’incirca nel 674-678, è probabile che corrispondesse abbastanza all’attuale napalm e sulle navi da guerra bizantine furono predisposte apposite apparecchiature molto simili ai lanciafiamme per irrorare e bruciare le navi nemiche per lo più arabe ma anche occidentali.
“La flotta imperiale deve aver avuto anche accesso prioritario alla fabbrica in cui veniva prodotto questo composto, perché la produzione di quest’arma segreta deve essere avvenuta in condizioni di rigorosa sicurezza in un unico posto e questo posto deve essere stato dentro le mura di Costantinopoli.
Quantitativi di fuoco greco debbono essere stati forniti a tutte le flotte romano-orientali, ma è probabile che questi quantitativi non siano stati abbondanti per garantirsi da rischi di eventuali ammutinamenti.” (A. Toynbee, Costantino Porfirogenito e il suo mondo, Firenze, 1987, p.364).
Nella lunga e complessa storia di Bisanzio è capitato pure che le flotte militari si scontrassero tra di loro e a determinare l’esito favorevole dello scontro fosse il possesso o meno di questa micidiale arma. Addirittura pare che in una rivolta militare il fuoco greco, usato da uno degli opposti schieramenti, determinasse la disintegrazione di una parte notevole della marina da guerra bizantina, limitando per un certo periodo di tempo gravemente l’attività militare nel bacino del Mediterraneo.
“Cosa era il fuoco greco? E’ molto probabile che la base del primitivo fuoco greco fosse petrolio liquido rettificato volatile… I solidi erano resina di pino e zolfo.” (A. Toynbee, Op.cit., p. 365). L’ingrediente essenziale era la benzina, non il salnitro o la calce viva.
“Sembra che il sifone attraverso cui il fuoco greco veniva scaricato sia stato una pompa premente a doppia azione. Se l’ingrediente base era la benzina, non si poteva scaricare in modo efficace senza essere condensato. La particolare miscela usata e i mezzi meccanici per lanciarla costituivano nel loro insieme il segreto del fuoco greco.” (Idem, pp. 365-366).
E’ probabile inoltre che a causa dei comprovati rapporti diplomatici intrattenuti da Bisanzio anche con la Cina per parecchi secoli non fosse ignota ai Romani d’Oriente un qualche genere di miscela assomigliante alla polvere da sparo scoperta già in Cina nel sesto secolo dopo Cristo.
L’XI secolo a Bisanzio rappresenta il massimo splendore dell’Impero, ma segna anche l’inizio del declino.

La crisi bizantina

Se l’XI secolo segna in Occidente una progressiva ripresa in tutti i settori, a Bisanzio l’XI secolo segna il suo costante regresso. Anche qui i manuali di storia medioevale sono piuttosto vaghi, parlano di una generica crisi bizantina che sembra quasi scaturita dal nulla, lasciando negli alunni una sensazione di imprecisione e di disinformazione.

Decadenza del sistema dei temi

Gli imperatori bizantini di questo periodo lasciano quasi volutamente decadere il sistema dei temi nella speranza di riaccentrare il residuo potere militare nelle loro mani. Essi inoltre cercano di costituire un esercito professionale composto anche da stranieri, in particolare Nordici, Vichinghi, Normanni, Vareghi.
Essi accrescono la pressione fiscale sui contadini-soldati dei temi, accelerando il processo di disgregazione delle strutture tematiche, caposaldo dell’Impero bizantino dal VII secolo. Le truppe professionali sono costose e non sempre affidabili. Esse sono utili per prolungate, massicce e lontane campagne militari, ma impongono un salasso fiscale che ricade tutto sui contadini. Ne approfittano i grandi proprietari di terre che si impossessano di gran parte dei fondi dei contadini bizantini.
Contemporaneamente sembra che gli imperatori di Bisanzio nell’XI secolo siano più propensi ad aumentare la spesa pubblica a favore della loro corte e della loro burocrazia civile a scapito della nobiltà tematica che ha costituito da secoli nell’Impero il nerbo della ufficialità militare alla guida delle truppe tematiche. L’efficienza e l’organizzazione militare dell’Impero sono trascurate. Si dimentica che l’Impero è innanzitutto e soprattutto una complessa e articolata macchina militare.
Le conseguenze negative non si lasceranno attendere. Nel 1071 sui due opposti e più importanti fronti dell’Impero arriveranno due sconfitte militari che segneranno l’inizio della fine dell’Impero romano d’Oriente: la caduta di Bari in Italia ad opera dei Normanni e la battaglia campale di Mantzikert in Asia Minore dove i Turchi Selgiuchidi distruggeranno l’esercito imperiale.

Decadenza della flotta e del commercio

La flotta militare sarà abbandonata a se stessa, mancando sempre più la regolarità del prelievo fiscale, messa in ginocchio anche dalla perdita di temi agricoli di estrema importanza occupati stabilmente dai Turchi Selgiuchidi. Dal 1082 i Veneziani furono liberi di commerciare nell’immenso mercato bizantino in cambio del loro sostegno contro i Normanni.
Inoltre i mercanti bizantini furono facilmente ridimensionati perché la logica del protezionismo monopolistico e corporativo entro cui essi avevano sempre agito non riusciva più a reggere di fronte ai violenti assalti dello spregiudicato liberismo individuale dei mercanti occidentali.
D’altra parte proprio la morsa stretta del protezionismo imperiale bizantino per certi aspetti autarchico aveva in parte bloccato i pur necessari processi di innovazione agricola, tecnologica e commerciale che in Occidente ora invece esplodevano dopo essere stati a lungo repressi dal feudalesimo.
Sul piano religioso l’XI secolo a Bisanzio vede il nascere di una prima divaricazione tra imperatore e popolo. Questa crepa nell’ormai non più solido edificio bizantino si evidenzia ulteriormente con un’altra divaricazione crescente: quella tra lingua ufficiale e lingua popolare quotidiana quasi a suggellare la formazione di due società parallele non sempre convergenti.

Il “Digenis” e i fermenti eretici

Il capolavoro più originale della civiltà bizantina è il “Digenis Akrita”, il cavaliere dalle due nascite: greco-ortodossa e asiatica. Il protagonista dell’epica bizantina Digenis prende forma all’incirca tra il IX e l’XI secolo ai confini asiatici dell’Impero in mezzo a quella popolazione rurale asiatica, la prima ad accorrere in soccorso dell’Impero e la più strenua sostenitrice dei valori greco-ortodossi della civiltà bizantina. Di questo capolavoro nei manuali di storia medioevale non si trova traccia, facendo apparire la civiltà bizantina come incapace di produrre novità anche a livello letterario e lasciando negli alunni l’impressione di una conservazione anche culturale.
Digenis è un cavaliere che difende i valori dell’Impero romano-orientale cristiano ortodosso dall’assalto degli Arabi infedeli. Egli corrisponde al prototipo dell’eroe cavalleresco dell’epica occidentale coeva. L’eroe “akritico” interpreta ottimamente e fino in fondo l’ipotesi originale, inventata in Oriente, dello Spirito di Crociata. Modelli simili a Digenis sono riscontrabili in Occidente nelle figure di Orlando e del Cid Campeador.
Dietro Digenis si coglie tutta la mentalità del mondo rurale orientale asiatico dell’Anatolia. I sudditi rurali anatolici dell’Impero romano d’Oriente si sentono gli unici veri interpreti e custodi della ortodossia cristiana, una ortodossia probabilmente intrisa di elementi fortemente messianici, palingenetici ed apocalittici, ma anche “nazionalistici”. Infatti è proprio agli estremi limiti asiatici dell’Impero che nascono e si sviluppano in ambiente rurale tutti quei movimenti eretici e manichei, dai “Pauliciani” agli “Iconoclasti”, ai “Bogomili”, anch’essi intrisi di fermenti “nazionalistici” adombrati nel loro radicalismo religioso. Tutti e tre questi movimenti, propulsori e anticipatori in Oriente dei movimenti ereticali occidentali, faranno si che, al volgere dell’XI secolo, grazie anche all’insostenibile pressione fiscale e alla rapacità ed avidità dei grandi proprietari terrieri e degli esattori, i sudditi rurali asiatici dell’Impero in effetti preferiscano subire senza particolari resistenze il dominio del nuovo conquistatore infedele, il Turco Selgiuk.

La “tecnologia retorica”

E adesso, qualche rapidissimo cenno sul sistema letterario bizantino. Più che soffermarci sul monumentale apparato letterario romano-orientale, che richiederebbe un capitolo a parte, si vuole estrapolare da esso l’elemento chiave, che poi ci sembra essere alla base dell’intero universo comunicativo ed ideologico dell’Impero bizantino: la Retorica. La retorica per un bizantino colto è una “tecnologia” trasversale al servizio della comunità e delle sue articolazioni, è logica argomentativa, tradizione ed ideologia dell’eternità. Essa, riscontrabile nei classici della romanità, continua ad essere alla base dell’educazione, della amministrazione, della politica, della diplomazia, della guerra, dell’arte, della religione. E’ una tecnologia totalizzante.
Essa dà il meglio di se nella pubblica amministrazione che è la spina dorsale dell’Impero bizantino, un Impero che può vantare di fronte all’Occidente e all’Islam la sua superiore organizzazione amministrativa. Ed è proprio questa organizzazione che consente rispetto all’Occidente di formare stabilmente un ceto medio notevolmente alfabetizzato capace di innescare una discreta spinta alla acculturazione e alla costante pratica dei classici.
Gli storici che si rivolgono alle sfere dirigenti, i cronisti che scrivono per la parte più umile del popolo, i poeti che compongono per cerchie ancora più ristrette, i retori che scrivono per la corte, per l’imperatore e per se stessi, gli educatori, gli esperti di giurisprudenza si esprimono per mezzo delle tecniche retoriche antiche quanto l’Impero finalizzate a comunicare al mondo la sua eternità.
La stessa regolamentazione retorica è visibile nell’arte bizantina: il montaggio retorico delle immagini della gerarchia celeste nelle chiese ortodosse corrisponde esattamente a quello della gerarchia imperiale. La stessa musica sacra bizantina è una retorica del duplice Impero perenne.
Le periodiche rinascite “umanistiche” di Bisanzio sono tutte di stampo retorico ed enciclopedico, a parte qualche rara eccezione. E non poteva che essere così in un Impero dove tutti gli spazi possibili all’uomo dovevano essere messi al servizio di uno Stato alla lunga atrofizzato dalla idolatria di se stesso.

di Gennaro Tedesco

Fonti:

Testi di G. Tedesco: