venerdì 3 giugno 2011

La vera Storia del Risorgimento - L'invasione violenta e repressiva del Regno delle Due Sicilie

Non si può festeggiare il 150° anniversario dell'Unità d'Italia senza riconoscere l'altra Storia del Risorgimento come l'invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie nel 1860, prima dall’epopea farsesca dei mille di Garibaldi e, poi, dall'esercito piemontese, con 120 mila uomini al comando del Generale Cialdini.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi andando alla festa dei giovani del PdL, - in un momento di lucidità in cui, forse, gli funzionava l’unico neurone che possiede, non distratto dal Bunga Bunga, - li ha caldamente esortati a leggere due libri, Risorgimento da riscrivere” di Angela Pellicciari e “Le grandi menzogne della storia contemporanea” di Sandro Fontana.
Il premier ha detto che occorre correggere ciò che è stato scritto erroneamente della nostra storia. E, se il libro della Pellicciari è stato provocatoriamente definito da Chiarini su Il Riformista il manifesto dell'anti-Risorgimento. Conoscendo la scarsa affidabilità intellettiva ed intellettuale del personaggio e, quindi, senza troppo enfatizzare, significa che comunque anche un capo di governo italiano prende atto che bisogna raccontare la vera Storia del Risorgimento, che non è quella mitologica raccontata nelle nostre scuole.
Certo non esiste solo il pur brillante libro della Pellicciari, ce ne sono altri, non ultimo Due Sicilie 1860 - L'invasione” di Bruno Lima, edito da Fede & Cultura di Verona (www.fedecultura.com), che è magnificamente documentato con una fitta rete di note e citazioni a piè di pagina e con una completa appendice documentale. Il libro di Lima - scrive Carlo Alberto Agnoli nella prefazione - si colloca in quel filone di opere che i custodi della versione ufficiale della storia e, con essa, dei programmi scolastici su cui vengono formate le nuove generazioni, si sono sforzati di screditare ricorrendo all’espressione ad effetto 'revisionismo storico' e alle parole esorcizzatrici 'dietrologia' e 'complottismo' a cui indirizziamo tutti i nostri… vaffa…
E, nonostante i cani da guardia di quelli che stabiliscono quale sia la 'storia patria' vigilano pronti a stroncare ogni tentativo 'revisionista', il muro della leggenda risorgimentale comincia a presentare vistose crepe, anche se ancora permane purtroppo nei testi scolastici.
Il libro di don Lima si struttura in due parti, nella prima, il testo sostiene che l'invasione del Regno delle due Sicilie è stata una congiura internazionale accuratamente preparata e programmata in particolare dal governo inglese, da Palmerston e Gladstone.
La Gran Bretagna vide nelle ambizioni del governo di Torino - utile idiota - lo strumento per attuare la sua politica di egemonia nel Mediterraneo.
La realizzazione del piano destabilizzatore, dopo essere stata predefinita sulla carta, richiese in primo luogo la cospirazione intestina finalizzata alla corruzione delle classi dirigenti con promesse di bottino ai danni del Popolo e, se volete, anche della Chiesa, che una volta tanto ne esce lei vittima.
Vittorio Emanuele II, definito ‘re galantuomo’ ha aggredito senza nessuna giustificazione uno Stato sovrano come quello delle Due Sicilie ed ha perseguitato i cittadini con sadico cinismo, per giunta cercando di giustificarsi con la falsa teoria che i popoli meridionali hanno chiesto aiuto, il famigerato grido di dolore , tra l'altro, mai levatosi.
Gli inglesi approntarono una campagna diffamatoria, basata su calunnie diffuse in tutta Europa a danno dei Borboni e delle Due Sicilie, dipingendo gli uni come tiranni spietati e i loro sudditi come popoli semibarbari. Bisognava fare terra bruciata attorno al nemico. Più avanti lo stesso Gladstone confessò di essersi inventato tutto. Si doveva far passare il piano eversivo di pochi uomini senza scrupoli, prezzolati dallo straniero, quale spontanea rivolta popolare.
Fecero passare per epiche battaglie delle pallide scaramucce che consentirono a una masnada male assortita di banditi, ladri ed ex galeotti d’impadronirsi di un magnifico regno quasi senza far uso delle armi se non nella fase finale della conquista.
Scrive Lima: “Tutto sarebbe stato vano se i fedelissimi soldati delle Due Sicilie avessero avuto la possibilità di battersi contro questa ciurmaglia di miserabili scalzacani. In pratica, la fantasmagorica passeggiata da Marsala a Napoli, non sarebbe mai avvenuta.
Nel 2° capitolo, Bruno Lima smonta la retorica risorgimentale del mito dell'impresa dei mille. Se non fosse per l’orribile scia di sangue e di sciagure umane che hanno lasciato, ridurrebbe quelle parodie di gesta militari agli atti di una commedia.
Dopo aver descritto la figura di Giuseppe Garibaldi, un avventuriero, nelle mani delle lobbies massoniche internazionali, molto lontano da quell'oleografia creata apposta per lui, viene descritta la cosiddetta campagna di pirateria di conquista del Regno borbonico, favorita essenzialmente dal tradimento degli alti ufficiali dello sprovveduto Francesco II, i vari Landi, Lanza, Clary, Brigante, tra l'altro rimasto ucciso dalle sue truppe perché riconosciuto traditore. E, infine, l'onnipotente ministro Liborio Romano, colluso con i piemontesi e con la criminalità locale, ansioso di consegnare Napoli al nemico.
Ma i fatti d'arme non cessarono con l'esilio di Francesco II, ospite di Pio IX a Roma. Il decennio 1860-1870, soprattutto nei primi anni, fu contrassegnato da una fiera resistenza armata che gli occupanti dileggiarono col nome di ‘brigantaggio’ per nascondere agli occhi del mondo il loro sopruso e giustificare in tal modo gli innumerevoli crimini contro l'umanità di cui si macchiarono con raro cinismo.
La seconda parte del libro affronta l'invasione delle Due Sicilie dal punto di vista giuridico, sostenendo la totale illegittimità internazionale dell'occupazione piemontese.
In pratica, i popoli delle Due Sicilie vennero privati della loro libertà e soggiogati da un esercito straniero, derubati dei loro beni privati e pubblici, imbavagliati con l'imposizione di un regime di terrore ufficialmente legittimato da plebisciti farsa.
Per sottrarsi a un destino senza speranza, milioni di meridionali non ebbero altra scelta che abbandonare per sempre il loro paese. Così, l'immenso tesoro del Regno, che ammontava a 443,2 milioni di lire del tempo, fu sperperato per sanare il devastante debito pubblico piemontese.
Una volta pagati i debiti dei guerrafondai piemontesi, traslocate al Nord le ricchezze meridionali, i governanti di Torino pianificarono scientificamente il perpetuo declassamento della società civile del Sud. L'accanimento nel saccheggio del Mezzogiorno - continua Bruno Lima - e lo sfruttamento incontrollato dei suoi abitanti produsse uno stato di miseria riconducibile storicamente solo alle depredazioni barbariche e a quelle dei pirati berberi.
Il Sud, messo in ginocchio, da questo momento storico non si risolleverà mai più. Oltre al danno, si ebbe la beffa: i popoli meridionali furono anche colpiti da un ignobile terrorismo psicologico, quello di essere grati ai loro persecutori, che, a loro volta, avevano imposto una aberrante esaltazione del mito risorgimentale attraverso la sistematica falsificazione della verità storica.
L'autore del libro è consapevole che le sue tesi potrebbero apparire esagerate e scandalose, visto che ormai da tanto tempo c'è l'abitudine di vedere il cosiddetto Risorgimento Italiano con gli occhi di una manualistica pesantemente condizionata dal falso mito di cui esso è stato circondato.
Comunque sia, stando agli avvenimenti, avulsi da ogni spirito di parte, si constata inevitabilmente, nei falsi eroi del Risorgimento e dalle stragi subite dai cittadini meridionali che non accettavano l’invasione, l’effettiva sussistenza di categorie giuridiche che oggi si è soliti collegare a tragedie umane più note e recenti quali lo sterminio degli armeni, l'olocausto ebraico, il dramma italiano delle foibe, gli eccidi compiuti dai diversi regimi comunisti sparsi nel mondo, fino ad arrivare alla guerra nella ex Jugoslavia e nel Ruanda, non tralasciando il Sudan con i suoi milioni di morti cristiani.

Molto liberamente tratto dal lavoro di Domenico Bonvegna
http://www.mascellaro.it/
http://www.fattisentire.org/modules.php?name=News&file=article&sid=3280
 

mercoledì 1 giugno 2011

Storiografia bizantina: quello che non dicono i libri di storia

La storiografia contemporanea più diffusa relativa alla storia dell’Europa medioevale, in particolare bizantina, ci offre una visione ancora troppo limitata.
Ai giovani del liceo scientifico o del liceo classico si presenta un’Europa medioevale che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, attraverso Carlo Magno fino alle Crociate ed oltre, è sempre comunque protagonista del faticoso percorso dell’evoluzione storica a scapito degli avvenimenti dell’Impero romano d’Oriente. Nella peggiore delle ipotesi i Bizantini non compaiono nemmeno, dimenticati nel loro “angolo” sud-orientale d’Europa. Gli unici concorrenti della così detta civiltà occidentale sembrano essere solo gli Arabi, per la perdurante influenza delle tesi di H. Pirenne. Ma è giunto il momento di mostrare agli allievi l’altra faccia della medaglia, quella molto più complessa e diversa che non appare ancora oggi nei manuali di storia. Dal VII secolo d.C. all’XI secolo, con alterne vicende, il Mediterraneo non è un lago arabo e la parte centro-meridionale del continente europeo non è esclusiva riserva di caccia dei Longobardi, dei Franchi o di tutti gli altri Barbari provenienti dall’Est europeo. Al contrario Bisanzio vi svolge un ruolo di primo piano, diventando nel Mediterraneo una potenza egemone.

Il sistema tematico: punto di partenza della rinascita bizantina

Come si manifesta, si concretizza e si sviluppa questo processo egemonico nel Mediterraneo? Di fronte all’avanzata araba nel Mediterraneo, l’Impero bizantino sviluppa un sistema difensivo unico al mondo: il sistema dei temi che nasce dall'esigenza di adeguarsi praticamente e rapidamente alla nuova situazione storica imposta dall'offensiva araba nel bacino del Mediterraneo. I temi sono essenzialmente unità amministrative, fiscali, militari. Essi svolgono la funzione di nuovi distretti militari autonomi all’interno di un Impero che comunque non perde mai il suo carattere centralizzato e totalitario.
I soggetti principali dei temi sono i contadini che in essi svolgono eminentemente due funzioni: quella produttivo-fiscale e quella militare. La proprietà e la coltivazione dei campi obbligano i contadini non solo alla contribuzione fiscale, ma anche alla leva militare.
A partire dal VII secolo in poi gli imperatori bizantini impongono ai loro sudditi rurali gran parte dell’onere necessario al mantenimento della costosa  macchina amministrativa e militare bizantina. Essi, bene o male, si adeguano a tale, in parte forzosa, richiesta perché essa evidentemente fino all’XI secolo consente sufficienti margini di sopravvivenza e sicurezza sociale e militare, ma anche notevoli elementi di dinamismo sociale ed economico sconosciuti ad esempio nell’Impero carolingio.
Nel confronto con lo statico, conservativo e conservatore sistema carolingio si può cominciare ad avvertire tutta l’enorme carica  progressiva ed innovativa dell’Impero bizantino che, in questo periodo, cioè dal VII all’XI secolo non è affatto quel monolito ingessato che tanta storiografia occidentale ha trasmesso all’immaginario collettivo di giovani ed alunni.
I temi bizantini amministrati e governati da uno stratega, che a sua volta, dipendeva direttamente e unicamente dal Basileus offrono non poche occasioni di ascesa sociale a una popolazione rurale che vede nell’espansione dei confini soprattutto ad Oriente, ma anche ad Occidente, accrescere la proprietà della terra strappata agli infedeli. In questo modo i contadini bizantini hanno buone ragioni per difendere l’Impero. La regolarità e la relativa abbondanza del prelievo fiscale consente al Basileus il consolidamento  di una eccellente burocrazia, del resto di antica tradizione romana, e la riorganizzazione di una flotta militare al servizio di una strategia di intervento globale nel bacino del Mediterraneo.
In questo periodo, al contrario, l’Impero carolingio e gli imperatori romani d’Occidente sono vittime di un sistema feudale che non solo non coinvolge i contadini, ma li emargina e li schiaccia..
Il prelievo fiscale è irregolare ed inefficace, rendendo impossibile la costituzione di una regolare ed efficiente  macchina amministrativa e militare.
Le principali unità amministrative dell’Impero bizantino erano concentrate in Asia Minore che fino all’XI secolo rimane il fulcro economico, agricolo e militare della comunità bizantina.

La flotta come fattore strategico apripista del commercio mediterraneo

La regolarità del prelievo fiscale e l’efficienza e l’efficacia del capillare sistema amministrativo bizantino consentono l’allestimento e il mantenimento di una poderosa e tecnologicamente avanzata flotta militare, al contrario dell’Impero carolingio e dei suoi successori che non riusciranno mai a dotarsi di una marina da guerra degna di questo nome. E anche per questo dovettero ricorrere al sostegno della marina militare bizantina, rinunciando di fatto al controllo del Mediterraneo con gravi conseguenze al loro interno.
Dal VII secolo all’XI secolo la flotta militare bizantina costituì l’elemento tattico e strategico determinante ai fini del dominio bizantino nell’intero bacino del Mediterraneo. Essa fu riorganizzata nel VII secolo per contenere e annientare l’avanzata araba nel Mediterraneo che puntava alla conquista della capitale, Costantinopoli.
Il compito della flotta militare bizantina, come quello dell’esercito, era strategicamente ben determinato: massimo sforzo in Oriente, centro nevralgico dell’Impero, da sempre, minimo sforzo nell’Occidente meno importante nel quadro della politica globale bizantina e considerato sia dal punto di vista politico che economico in una situazione da Terzo Mondo. Le fonti occidentali, franche e longobarde, non si sono mai rese conto del loro peso specifico minimo all’interno dello scacchiere internazionale bizantino e arabo.
Spesso e volentieri l’esercito e la marina militare romano-orientale agivano di concerto, avendo sempre come base di appoggio strategico e logistico la formidabile fortezza di Costantinopoli: dalla capitale partivano le vie di comunicazione più importanti dell’Impero, sia quelle terrestri che quelle marittime.
Il porto di Costantinopoli poi accoglieva il nerbo della flotta militare. A Costantinopoli era dislocato il comando militare strategico, ma anche il centro del potere politico e religioso. Tentare di occupare la capitale dell’Impero romano di Oriente e della cristianità ortodossa, Costantinopoli, la città “desiderio del mondo”, fu per gli Arabi una necessità storica, ma anche un sogno che non si concretizzò mai.
La tecnologia navale militare degli Arabi fu sempre inadeguata rispetto alle possibilità dei Bizantini che in questo campo rivelarono doti pratiche e scientifiche degne della loro conclamata origine e tradizione greco-romana. I Romani d’Oriente ebbero sempre facile accesso alle materie prime strategiche: le riserve di legname utili alla costruzione di navi militari abbondavano sia in Europa che in Asia Minore. Gli Arabi non disponevano di rilevanti risorse forestali nei loro territori, per lo più aridi, né seppero mai costruire navi della portata e della potenza di quelle romano-orientali. Le maestranze bizantine erano inoltre molto più esperte di quelle arabe in abilità e perizia marinaresca.
Ma l’arma segreta, l’arma totale, che diede alla flotta imperiale il dominio globale nel Mediterraneo non solo contro gli Arabi ma contro tutti i nemici, compresi i Carolingi, per quello che potevano valere sul mare, cioè molto poco, fu il fuoco greco, un’arma terribile. Essa fu inventata da un ingegnere siriano, Kallinikos, profugo da Eliopolis, all’incirca nel periodo del primo assedio arabo di Costantinopoli nel 674-678. Fu scoperto giusto in tempo per consentire ai Romani d’Oriente di costruire una flotta attrezzata con una apparecchiatura per lanciare napalm. La flotta romano-orientale bruciò completamente le navi arabe e i loro equipaggi.
Gli elementi costitutivi della miscela del fuoco greco furono gelosamente custoditi e tenuti segreti per lungo tempo. Soprattutto i Bizantini cercarono sempre di controllare, quanto meno indirettamente, tutta la regione dal Nord del Caucaso fino alla Mesopotamia settentrionale, perché in questa area erano reperibili e disponibili le più rilevanti riserve di “benzina” a cui neanche gli Arabi poterono mai accedere anche quando si impossessarono del segreto del fuoco greco.
Sotto l’ombrello protettivo di questa poderosa organizzazione militare ed economica fu relativamente facile alla elite dirigente di Bisanzio aprire e quasi monopolizzare i flussi commerciali nel bacino del Mediterraneo.

Il sistema commerciale bizantino

Quali sono le caratteristiche della politica economica e non solo economica dell’Impero bizantino nel mondo mediterraneo e orientale? Qui ancora una volta i nostri manuali di storia, come le fonti occidentali medioevali e la “vulgata” imperante forniscono un’immagine distorta e fuorviante: semplicemente i Bizantini non esistono come “produttori” di politica e storia nel Mediterraneo. La realtà storica dell’indagine scientifica più recente è del tutto diversa se non opposta a tale vulgata.

L’attività produttiva e commerciale per una politica di prestigio

Abbiamo già visto i Romani d’Oriente costituirsi un solido apparato produttivo e militare all’ombra del quale i commerci bizantini prosperarono con relativa facilità nel Mediterraneo. All’espansione non solo commerciale di Bisanzio nel Mediterraneo contribuirono anche l’abile e spregiudicata diplomazia e gli stessi monaci. Là dove gli eserciti, la flotta e il commercio non riuscivano nel loro compito “avvolgente”, ci pensavano gli agenti ufficiali e segreti della diplomazia affiancati da quegli altri “agenti” culturali e religiosi che erano i monaci. Tutta l’attività economica dell’Impero bizantino, ma anche altre attività, come quella culturale e religiosa, erano tutte finalizzate a una politica di prestigio. Gran parte della produzione e del commercio romano-orientale era considerato strategico ed essenziale alla politica di dominio globale dello stato Bizantino nel Mediterraneo e quindi soggetto ad un ferreo controllo dello Stato attraverso la sua massima espressione, l’imperatore.
La produzione e il commercio del legname e del petrolio erano rigorosamente controllate e limitate. Conseguentemente le aree geografiche della Mesopotamia, del Caucaso e dell’Asia Minore assumevano un valore economico e strategico enorme nella politica bizantina, perché qui vi erano concentrate grosse riserve di legname e petrolio utili per la fabbricazione delle navi e del fuoco greco.
Quando i Romani d’Oriente, attraverso il loro agguerrito e sofisticato servizio di informazioni, venivano a sapere che alcune città autonome dell’Italia meridionale esportavano legname, materiale strategico, essi adoperavano in questi casi l’arma dell’ “embargo”, cioè vietavano a queste città la vendita del materiale strategico. L’altra produzione bizantina soggetta, secondo le direttive politiche, a forti limitazioni nella esportazione e nella vendita, era quella serica di cui il governo bizantino aveva il monopolio. Era anch’essa una sorta di merce strategica perché fortemente desiderata e richiesta dalle élites barbare d’Occidente e dei Balcani. Essa consentiva agli imperatori di Costantinopoli di prendere, in un certo senso, “per la gola” i tirannelli locali longobardi o slavi che ne facessero richiesta.
La costruzione di fortezze e, in genere, di grandi opere militari per conto terzi era un’attività molto remunerativa per i Bizantini che, a caro prezzo, prevalentemente politico, si facevano pagare queste prestazioni d’opera elargite con estrema parsimonia ai piccoli e grandi sovrani d’Occidente e dei Balcani.
Il flusso delle merci di lusso provenienti dall’Oriente estremo era sapientemente e attentamente filtrato da Bisanzio nei suoi accessi orientali: spezie, profumi, stoffe e pietre preziose, oro ed altro ancora proveniente dall’Oriente veniva “ricaricato” e venduto in Occidente a prezzi stratosferici.

L’Occidente nel sistema bizantino

Le officine bizantine, per lo meno fino all’XI secolo, inondarono il Mediterraneo dei loro prodotti più rinomati: oreficeria, argenteria, avori, mosaici, stoffe preziose ed altro ancora, tutti i prodotti, come si direbbe oggi, ad alto valore aggiunto. I clienti e i consumatori di queste pregiate produzioni bizantine furono i principi e la nobiltà dell’Europa occidentale medioevale e dei Balcani.
Anche se il cuore delle attività produttive romano-orientali rimaneva l’Asia Minore anche per la produzione mineraria, la parte occidentale dell’Impero cominciava a decollare soprattutto nell’XI secolo in quella che era ancora la provincia bizantina, anzi il Catepanato bizantino d’Italia.
Fin quasi all’XI secolo le città autonome dell’Italia meridionale bizantina insieme all’enclave settentrionale di Venezia, erano state gli avamposti commerciali privilegiati dell’Impero bizantino. Essi avevano svolto il ruolo di “cavalli di Troia”: attraverso Amalfi, Napoli, ma soprattutto Venezia l’Impero romano-orientale era penetrato economicamente e culturalmente fino al centro dell’Europa carolingia e oltre. L’entroterra dell’Europa continentale carolingia era divenuto il mercato neo-coloniale dei mercanti bizantini, ma anche la palestra di esercizio per diplomatici ufficiali e segreti e per monaci fedelissimi al basileus costantinopolitano. Purtroppo, nei nostri manuali di storia, tutto questo è completamente ignorato e forse anche volutamente, perché la storia, come è successo in America latina, è la storia dei vincitori e i Bizantini e l’ortodossia sono stati vincitori fino all’XI secolo nell’ecumene mediterranea. Dall’Occidente i Bizantini, quindi, ricavano un notevole flusso d’oro perché i principi locali dovevano pagare in oro e questo flusso aureo con direzione Bisanzio finiva col depauperare ulteriormente l’Occidente come i Balcani. Lo sfruttamento dell’Occidente da parte bizantina fu aggravato dalla svendita delle risorse forestali e degli schiavi.

Gli aspetti tecnologici del dominio bizantino

Sul piano tecnologico l’Occidente ma anche l’Islam, per lo meno fino all’XI secolo, si dimostrano nettamente inferiori ai Romani d’Oriente, eredi della tradizione ellenistica molto attenta alle sperimentazioni tecnologiche messe però al servizio dello Stato, perfettamente in linea con Bisanzio.
Il fuoco greco, l’arma segreta e totale dei Bizantini, inventata da Kallinikos, ingegnere siriano, profugo da Eliopolis all’incirca nel 674-678, è probabile che corrispondesse abbastanza all’attuale napalm e sulle navi da guerra bizantine furono predisposte apposite apparecchiature molto simili ai lanciafiamme per irrorare e bruciare le navi nemiche per lo più arabe ma anche occidentali.
“La flotta imperiale deve aver avuto anche accesso prioritario alla fabbrica in cui veniva prodotto questo composto, perché la produzione di quest’arma segreta deve essere avvenuta in condizioni di rigorosa sicurezza in un unico posto e questo posto deve essere stato dentro le mura di Costantinopoli.
Quantitativi di fuoco greco debbono essere stati forniti a tutte le flotte romano-orientali, ma è probabile che questi quantitativi non siano stati abbondanti per garantirsi da rischi di eventuali ammutinamenti.” (A. Toynbee, Costantino Porfirogenito e il suo mondo, Firenze, 1987, p.364).
Nella lunga e complessa storia di Bisanzio è capitato pure che le flotte militari si scontrassero tra di loro e a determinare l’esito favorevole dello scontro fosse il possesso o meno di questa micidiale arma. Addirittura pare che in una rivolta militare il fuoco greco, usato da uno degli opposti schieramenti, determinasse la disintegrazione di una parte notevole della marina da guerra bizantina, limitando per un certo periodo di tempo gravemente l’attività militare nel bacino del Mediterraneo.
“Cosa era il fuoco greco? E’ molto probabile che la base del primitivo fuoco greco fosse petrolio liquido rettificato volatile… I solidi erano resina di pino e zolfo.” (A. Toynbee, Op.cit., p. 365). L’ingrediente essenziale era la benzina, non il salnitro o la calce viva.
“Sembra che il sifone attraverso cui il fuoco greco veniva scaricato sia stato una pompa premente a doppia azione. Se l’ingrediente base era la benzina, non si poteva scaricare in modo efficace senza essere condensato. La particolare miscela usata e i mezzi meccanici per lanciarla costituivano nel loro insieme il segreto del fuoco greco.” (Idem, pp. 365-366).
E’ probabile inoltre che a causa dei comprovati rapporti diplomatici intrattenuti da Bisanzio anche con la Cina per parecchi secoli non fosse ignota ai Romani d’Oriente un qualche genere di miscela assomigliante alla polvere da sparo scoperta già in Cina nel sesto secolo dopo Cristo.
L’XI secolo a Bisanzio rappresenta il massimo splendore dell’Impero, ma segna anche l’inizio del declino.

La crisi bizantina

Se l’XI secolo segna in Occidente una progressiva ripresa in tutti i settori, a Bisanzio l’XI secolo segna il suo costante regresso. Anche qui i manuali di storia medioevale sono piuttosto vaghi, parlano di una generica crisi bizantina che sembra quasi scaturita dal nulla, lasciando negli alunni una sensazione di imprecisione e di disinformazione.

Decadenza del sistema dei temi

Gli imperatori bizantini di questo periodo lasciano quasi volutamente decadere il sistema dei temi nella speranza di riaccentrare il residuo potere militare nelle loro mani. Essi inoltre cercano di costituire un esercito professionale composto anche da stranieri, in particolare Nordici, Vichinghi, Normanni, Vareghi.
Essi accrescono la pressione fiscale sui contadini-soldati dei temi, accelerando il processo di disgregazione delle strutture tematiche, caposaldo dell’Impero bizantino dal VII secolo. Le truppe professionali sono costose e non sempre affidabili. Esse sono utili per prolungate, massicce e lontane campagne militari, ma impongono un salasso fiscale che ricade tutto sui contadini. Ne approfittano i grandi proprietari di terre che si impossessano di gran parte dei fondi dei contadini bizantini.
Contemporaneamente sembra che gli imperatori di Bisanzio nell’XI secolo siano più propensi ad aumentare la spesa pubblica a favore della loro corte e della loro burocrazia civile a scapito della nobiltà tematica che ha costituito da secoli nell’Impero il nerbo della ufficialità militare alla guida delle truppe tematiche. L’efficienza e l’organizzazione militare dell’Impero sono trascurate. Si dimentica che l’Impero è innanzitutto e soprattutto una complessa e articolata macchina militare.
Le conseguenze negative non si lasceranno attendere. Nel 1071 sui due opposti e più importanti fronti dell’Impero arriveranno due sconfitte militari che segneranno l’inizio della fine dell’Impero romano d’Oriente: la caduta di Bari in Italia ad opera dei Normanni e la battaglia campale di Mantzikert in Asia Minore dove i Turchi Selgiuchidi distruggeranno l’esercito imperiale.

Decadenza della flotta e del commercio

La flotta militare sarà abbandonata a se stessa, mancando sempre più la regolarità del prelievo fiscale, messa in ginocchio anche dalla perdita di temi agricoli di estrema importanza occupati stabilmente dai Turchi Selgiuchidi. Dal 1082 i Veneziani furono liberi di commerciare nell’immenso mercato bizantino in cambio del loro sostegno contro i Normanni.
Inoltre i mercanti bizantini furono facilmente ridimensionati perché la logica del protezionismo monopolistico e corporativo entro cui essi avevano sempre agito non riusciva più a reggere di fronte ai violenti assalti dello spregiudicato liberismo individuale dei mercanti occidentali.
D’altra parte proprio la morsa stretta del protezionismo imperiale bizantino per certi aspetti autarchico aveva in parte bloccato i pur necessari processi di innovazione agricola, tecnologica e commerciale che in Occidente ora invece esplodevano dopo essere stati a lungo repressi dal feudalesimo.
Sul piano religioso l’XI secolo a Bisanzio vede il nascere di una prima divaricazione tra imperatore e popolo. Questa crepa nell’ormai non più solido edificio bizantino si evidenzia ulteriormente con un’altra divaricazione crescente: quella tra lingua ufficiale e lingua popolare quotidiana quasi a suggellare la formazione di due società parallele non sempre convergenti.

Il “Digenis” e i fermenti eretici

Il capolavoro più originale della civiltà bizantina è il “Digenis Akrita”, il cavaliere dalle due nascite: greco-ortodossa e asiatica. Il protagonista dell’epica bizantina Digenis prende forma all’incirca tra il IX e l’XI secolo ai confini asiatici dell’Impero in mezzo a quella popolazione rurale asiatica, la prima ad accorrere in soccorso dell’Impero e la più strenua sostenitrice dei valori greco-ortodossi della civiltà bizantina. Di questo capolavoro nei manuali di storia medioevale non si trova traccia, facendo apparire la civiltà bizantina come incapace di produrre novità anche a livello letterario e lasciando negli alunni l’impressione di una conservazione anche culturale.
Digenis è un cavaliere che difende i valori dell’Impero romano-orientale cristiano ortodosso dall’assalto degli Arabi infedeli. Egli corrisponde al prototipo dell’eroe cavalleresco dell’epica occidentale coeva. L’eroe “akritico” interpreta ottimamente e fino in fondo l’ipotesi originale, inventata in Oriente, dello Spirito di Crociata. Modelli simili a Digenis sono riscontrabili in Occidente nelle figure di Orlando e del Cid Campeador.
Dietro Digenis si coglie tutta la mentalità del mondo rurale orientale asiatico dell’Anatolia. I sudditi rurali anatolici dell’Impero romano d’Oriente si sentono gli unici veri interpreti e custodi della ortodossia cristiana, una ortodossia probabilmente intrisa di elementi fortemente messianici, palingenetici ed apocalittici, ma anche “nazionalistici”. Infatti è proprio agli estremi limiti asiatici dell’Impero che nascono e si sviluppano in ambiente rurale tutti quei movimenti eretici e manichei, dai “Pauliciani” agli “Iconoclasti”, ai “Bogomili”, anch’essi intrisi di fermenti “nazionalistici” adombrati nel loro radicalismo religioso. Tutti e tre questi movimenti, propulsori e anticipatori in Oriente dei movimenti ereticali occidentali, faranno si che, al volgere dell’XI secolo, grazie anche all’insostenibile pressione fiscale e alla rapacità ed avidità dei grandi proprietari terrieri e degli esattori, i sudditi rurali asiatici dell’Impero in effetti preferiscano subire senza particolari resistenze il dominio del nuovo conquistatore infedele, il Turco Selgiuk.

La “tecnologia retorica”

E adesso, qualche rapidissimo cenno sul sistema letterario bizantino. Più che soffermarci sul monumentale apparato letterario romano-orientale, che richiederebbe un capitolo a parte, si vuole estrapolare da esso l’elemento chiave, che poi ci sembra essere alla base dell’intero universo comunicativo ed ideologico dell’Impero bizantino: la Retorica. La retorica per un bizantino colto è una “tecnologia” trasversale al servizio della comunità e delle sue articolazioni, è logica argomentativa, tradizione ed ideologia dell’eternità. Essa, riscontrabile nei classici della romanità, continua ad essere alla base dell’educazione, della amministrazione, della politica, della diplomazia, della guerra, dell’arte, della religione. E’ una tecnologia totalizzante.
Essa dà il meglio di se nella pubblica amministrazione che è la spina dorsale dell’Impero bizantino, un Impero che può vantare di fronte all’Occidente e all’Islam la sua superiore organizzazione amministrativa. Ed è proprio questa organizzazione che consente rispetto all’Occidente di formare stabilmente un ceto medio notevolmente alfabetizzato capace di innescare una discreta spinta alla acculturazione e alla costante pratica dei classici.
Gli storici che si rivolgono alle sfere dirigenti, i cronisti che scrivono per la parte più umile del popolo, i poeti che compongono per cerchie ancora più ristrette, i retori che scrivono per la corte, per l’imperatore e per se stessi, gli educatori, gli esperti di giurisprudenza si esprimono per mezzo delle tecniche retoriche antiche quanto l’Impero finalizzate a comunicare al mondo la sua eternità.
La stessa regolamentazione retorica è visibile nell’arte bizantina: il montaggio retorico delle immagini della gerarchia celeste nelle chiese ortodosse corrisponde esattamente a quello della gerarchia imperiale. La stessa musica sacra bizantina è una retorica del duplice Impero perenne.
Le periodiche rinascite “umanistiche” di Bisanzio sono tutte di stampo retorico ed enciclopedico, a parte qualche rara eccezione. E non poteva che essere così in un Impero dove tutti gli spazi possibili all’uomo dovevano essere messi al servizio di uno Stato alla lunga atrofizzato dalla idolatria di se stesso.

di Gennaro Tedesco

Fonti:

Testi di G. Tedesco:

martedì 26 aprile 2011

La vera storia occulta di Garibaldi e del Meridione: Risorgimento massonico?





Questo video menziona il Risorgimento italiano dalla realtà storica del vissuto degli abitanti del Regno delle Due Sicilie.

Vedremo la crudeltà mai citata nei libri di storia dell'esercito dei savoia ai danni dei poveri contadini e cittadini del meridione.

Questa storia revisionista menziona, inoltre, i legami della massoneria con il Risorgimento italiano e, in particolare, con Giuseppe Garibaldi, che non sembrerebbe affatto un eroe, ma un vero e proprio sanguinario ambizioso.

Il Sud ed il suo popolo fu così costretto ad emigrare altrove perchè derubato di tutto il suo tesoro economico da chi volle fare l'Italia.

Perchè questa scomoda storia di come fu fatta l'Italia non viene mai raccontata nei libri di scuola?

Questo documento mira a far riflettere sul perchè il Sud è da sempre stuprato e deriso dal popolo del Nord!

Con tutti i suoi misteri e mezze verità, la nostra Italia è davvero una nazione libera dalla massoneria e dai molti segreti ambigui e loschi che ancora avvolgono il nostro paese?

Michele P.
arcangeliedemoni.blogspot.com/

lunedì 25 aprile 2011

La vera storia del termine Balilla usato dal copista Mussolini

“Balilla” è un appellativo che oggi ha l’unico significato di giovane fascista, a parte, forse, che nel dialetto genovese.
In realtà Balilla, in genovese, dopo tanti studi di eminenti storici risorgimentali, è  un abbreviativo di Baciccia, che in ligure è, a sua volta, il diminutivo di Gian Battista.
Ma torniamo alla storia del Balilla: Genova, 1746.
Gli austriaci invadono la città che è, da sempre, stata una Repubblica Marinara, praticamente indipendente, anche se con forti alleanze, e gli austriaci sono odiati da tutti, ma molto temuti.
Un giorno d’inverno, un plotone di soldati austriaci, dopo che il proprio cannone rimase invischiato nel fango in una delle strade genovesi, chiesero, anzi pretesero, che la popolazione li aiutasse a tirarlo fuori.
La gente si riunì intorno a quello spettacolo, ma nessuno, ovviamente, voleva aiutare gli austriaci, sennonché un ragazzino, Balilla (soprannominato anche ‘Mangiamerda’ dai compagni), ebbe l’ardore di prendere un sasso e tirarlo all’ufficiale austriaco che pretendeva l’aiuto dei cittadini.
Fu la scintilla che, insieme alla classica goccia, fece traboccare il vaso ormai colmo della pazienza dei genovesi.
La città si ribellò e si liberò dagli invasori e la figura e il nome Balilla furono ripresi dagli storici del Risorgimento Italiano, tanto che Mameli, nell’Inno d’Italia, composto nel 1847, li mise nella quarta strofa, “I bimbi d’italia si chiaman Balilla”, ad indicare un ragazzino coraggioso che scaccia l’odiato straniero dalla terra italiana, quello che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.
Fu Mussolini, nel ventennio fascista, che fece della figura e del nome del Balilla il massimo della propaganda per il proprio regime.
Balilla divennero i ragazzini che, fatti crescere troppo in fretta e vestiti da perfetti fascisti con libro e moschetto, morirono a migliaia, finanche solo 18enni, nei vari fronti della Seconda Guerra Mondiale.

La vera storia dell'Inno di Mameli

Tra gli italiani, riguardo all’Inno di Mameli, c’è sempre stata una grande confusione, talvolta avvolgendola nella leggenda, che nessuno ha mai saputo dipanare.
Ancora più confusione la sta creando la Lega Nord, i cui esponenti, forse, non sanno nemmeno di cosa parlano.
Và sottolineato che “Fratelli d’Italia” non fu scritto in fretta e furia, come molti dicono, nel 1860 per dare un Inno nazionale all’Italia unita, in quanto, sino al 1946, l’Inno italiano è stata la “Marcia Reale” e l’Inno di Mameli riposto nel dimenticatoio. Inoltre, Mameli morì, appena ventiduenne, nel 1849, ben prima dell’unità d’Italia.
Né l’Inno di Mameli è attualmente l’Inno ufficiale d’Italia, né lo è mai stato, poiché, nel 1946, fu decretato il suo utilizzo provvisorio, in attesa di sostituirlo con un’opera definitiva.
Neppure la Lega Nord, con le sue polemiche sull’Inno, è originale: la Lega Lombarda (poi divenuta Lega Nord) fu fondata nel 1982 e, ben prima di tale anno, Enzo Tortora, in una trasmissione titolata “Portobello”, sollecitato da un giornalista suo ospite, lanciò un sondaggio telefonico sulle preferenze degli italiani in riferimento all’Inno nazionale tra Fratelli d’Italia e Va’ pensiero, aria del Nabucco di Giuseppe Verdi.
Arrivarono oltre 15.000 telefonate di “votanti” e vinse Va’ pensiero.

La vera storia dell’Inno di Mameli

Nell’autunno del 1847, Goffredo Mameli (come già detto, morto a 22 anni nel 1849), forse a seguito di espressa richiesta di Giuseppe Mazzini, scrisse il testo de “Il Canto degli Italiani” (titolo originale di Fratelli d’Italia).
La richiesta rivolta a Mameli fu, probabilmente, quella di creare un Inno con la forza popolare della Marsigliese, ma con chiari richiami alla Massoneria e all’idea repubblicana, oltre che all’Italia unita. Da qui, il “figli della patria” francesi diventano i “fratelli d’Italia”.
Dopo aver scartato l’idea di adattarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre lo inviò al maestro Michele Novaro, che scrisse di getto la musica, cosicché l’inno poté debuttare il 10 dicembre, quando sul piazzale del Santuario della Nostra Signora di Loreto a Oregina fu presentato, ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani, in occasione del centenario della cacciata degli austriaci suonato dalla Filarmonica Sestrese C. Corradi G. Secondo, allora banda municipale di Sestri Ponente “Casimiro Corradi”.
Era un momento di grande eccitazione: mancavano pochi mesi al celebre 1848, che era già nell’aria. Era stata abolita una legge che vietava assembramenti di più di dieci persone, così ben in 30.000 ascoltarono l’Inno e l’impararono.
Nel frattempo, Nino Bixio, sulle montagne, organizzava i falò della notte dell’Appennino.
Dopo pochi giorni, tutti conoscevano l’Inno, che veniva cantato senza sosta in ogni manifestazione (più o meno pacifica).
Durante le Cinque giornate di Milano, gli insorti lo intonavano a squarciagola: Il canto degli italiani era già diventato un simbolo del Risorgimento.
Gli inni patriottici come l’Inno di Mameli (sicuramente, fra tutti, il più importante) furono un grandioso strumento di propaganda degli ideali del Risorgimento e di incitamento all’insurrezione, che contribuì significativamente alla svolta storica che portò all’emanazione dello Statuto Albertino ed all’impegno del Re nel rischioso progetto di riunificazione nazionale.
Proprio perché il loro principale scopo era questo, in questi inni assumevano un’importanza prevalente i testi rispetto alla musica, che fondamentalmente doveva solo essere orecchiabile per favorirne la memorizzazione e, quindi, la diffusione delle parole. Per tali ragioni molti di questi inni sono solo delle semplici “marcette” (come “Fratelli d’Italia”), per cui il valore artistico e la qualità musicale diventano elementi secondari.
Quando l’Inno si diffuse, le autorità cercarono di vietarlo, considerandolo eversivo per via dell’ispirazione repubblicana e anti-monarchica del suo autore.
Visto il totale fallimento, tentarono di censurare almeno l’ultima parte, estremamente dura con gli Austriaci, al tempo ancora formalmente alleati: ma neppure in questo si ebbe successo.
Dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura del testo, così come abrogò l’articolo dello Statuto Albertino secondo cui l’unica bandiera del regno doveva essere la coccarda azzurra, rinunciando agli inutili tentativi di reprimere l’uso del tricolore verde, bianco e rosso (sino ad allora, bandiera della Cispadania), anch’esso impostosi come simbolo patriottico dopo essere stato adottato clandestinamente, nel 1831, come simbolo della Giovine Italia di Mazzini.
In seguito, fu proprio intonando l’Inno di Mameli che Garibaldi, con i “Mille”, intraprese la conquista dell’Italia meridionale e la riunificazione nazionale.
Mameli era già morto da parecchio tempo, ma le parole del suo Inno, che invocava un’Italia unita, erano più vive che mai.
Anche l’ultima tappa di questo processo, la presa di Roma del 1870, fu accompagnata da cori che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri.
Anche più tardi, per tutta la fine dell’Ottocento e oltre, Fratelli d’Italia rimase molto popolare come in occasione della guerra libica del 1911/1912, che lo vide ancora una volta il più importante rappresentante di una nutrita serie di canti patriottici vecchi e nuovi.
Lo stesso accadde durante la prima guerra mondiale: l’irredentismo che la caratterizzava, l’obiettivo di completare la riunificazione, trovò facilmente ancora una volta un simbolo nel Canto degli italiani.

Prime incisioni

Una delle prime registrazioni del Canto degli italiani fu quella che fece, il 9 giugno 1915, il cantante lirico e di musica napoletana Giuseppe Godono.
L’etichetta per cui il brano venne inciso fu la Phonotype di Napoli.
Una seconda antica incisione, pervenuta ad oggi, è quella della Banda del Grammofono, registrata a Londra per la casa discografica His Master’s Voice (La Voce del Padrone), il 23 gennaio 1918.

Fratelli d’Italia e il fascismo

Dopo la Marcia su Roma, assunsero grande importanza, oltre all’inno ufficiale del regno, che era sempre la Marcia Reale, i canti più prettamente fascisti, che, pur non essendo degli inni ufficiali, erano diffusi e pubblicizzati molto capillarmente.
I canti risorgimentali furono comunque incoraggiati, tranne quelli “sovversivi” di stampo anarchico o socialista, come l’Inno dei lavoratori o l’Internazionale, oltre a quelli di popoli stranieri non simpatizzanti col fascismo, come La Marsigliese.
Anche gli altri canti furono rinvigoriti, e a esempio La canzone del Piave veniva cantato nell’anniversario della vittoria, il 4 novembre.
Fu istituito il Sindacato Nazionale Fascista dei Musicisti, con ampie competenze a livello nazionale, da cui dipendeva il Fondo Nazionale di Assistenza, ed infine nacque la Corporazione dello Spettacolo, posta sotto la giurisdizione del Ministro delle Corporazioni.
Queste erano le principali strutture che governavano la vita musicale italiana. Il fascismo giunse a governare le attività di tutte le istituzioni musicali, dalle scuole ai conservatori, ai teatri, ai festival ed ai concorsi.
La politica fascista non modificò i programmi di istruzione scolastica e professionale dei musicisti. Spesso l’Inno di Mameli viene erroneamente indicato come l’Inno nazionale della Repubblica Sociale Italiana: invece, è documentata la mancanza di un inno nazionale ufficiale. Nelle cerimonie veniva cantato l’Inno di Mameli oppure Giovinezza.

Nell’Italia repubblicana

Nella seconda guerra mondiale, indicibilmente più dura della prima, non ci fu lo spazio nemmeno per i canti che avevano invece caratterizzato la Grande Guerra, nascendo molto spesso dal basso.
Solo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Inno di Mameli e molti altri vecchi canti, assieme a quelli nuovi dei partigiani, risuonarono per tutta Italia (anche al Nord, dove erano trasmessi dalla radio), dando coraggio agli italiani.
In questo periodo di transizione, sapendo che la monarchia sarebbe stata messa in discussione e che la Marcia Reale sarebbe stata perciò provocatoria, il Governo adottò provvisoriamente come inno nazionale La canzone del Piave.
Nel 1945, dopo la fine della guerra, a Londra, Arturo Toscanini diresse l’esecuzione dell’Inno delle Nazioni, composto da Verdi e comprendente anche l’Inno di Mameli, che vide così riconosciuta l’importanza che gli spettava.
Il Consiglio dei Ministri, il 12 ottobre 1946, acconsentì all’uso provvisorio dell’Inno di Mameli come Inno nazionale, limitandosi così a non opporsi a quanto decretato dal popolo, anche se alcuni volevano confermare La canzone del Piave e altri avrebbero preferito il Va’ pensiero (celebre aria dall’opera lirica Nabucco) di Giuseppe Verdi.
Altri ancora avrebbero voluto bandire un concorso per trovare un nuovo inno che sottolineasse la natura repubblicana della nuova Italia: ciò forse non era necessario, perché Mameli e il suo Inno erano già accoratamente repubblicani (proprio per questo, come si è precedentemente detto, all’inizio erano stati banditi dal Regno sabaudo).
La Costituzione Italiana sancì l’uso del tricolore come bandiera nazionale, ma non stabilì quale sarebbe stato l’Inno e nemmeno il simbolo della Repubblica, che, essendo fallito il primo concorso dell’ottobre 1946, fu scelto solo con il decreto legislativo del 5 maggio 1948, in seguito a un secondo concorso cui parteciparono 197 loghi di 96 artisti e specialisti, dei quali risultò vincitore Paolo Paschetto, col suo noto emblema attualmente in uso.
Per molti decenni si è dibattuto a livello politico e parlamentare circa la necessità di rendere Fratelli d’Italia l’inno ufficiale della Repubblica Italiana, ma senza che si arrivasse mai all’approvazione di una legge o di una modifica costituzionale che sancisse lo stato di fatto, riconosciuto peraltro anche in tutte le sedi istituzionali.
Nel 2006 è stato discusso, nella Commissione Affari Costituzionali del Senato, un disegno di legge che prevede l’adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell’inno Fratelli d’Italia.
Lo stesso anno, con la nuova legislatura, è stato presentato al Senato un disegno di legge costituzionale che prevede la modifica dell’art.12 della Costituzione Italiana con l’aggiunta del comma “L’inno della Repubblica è Fratelli d’Italia”.
Nel 2008, altre iniziative analoghe sono state adottate in sede parlamentare.

Le critiche

Fratelli d’Italia è stato spesso criticato, e spesso alcuni ne hanno ventilato la sostituzione, specie all’inizio degli anni novanta.
Le critiche si appuntano, in genere, sulla bassa qualità musicale dell’Inno, rilevandone un carattere di “marcetta” o “canzone da cortile” di poche pretese. Si obietta, tuttavia, che la funzione e gli scopi degli inni patriottici, popolari e di lotta, mal si conciliano, in genere, con un’elevata qualità artistica della melodia.
Molti concordano col dire che è vero che la melodia non è sublime e sicuramente è inferiore a quella dell’inno tedesco di Haydn e al Va’ pensiero, il candidato più frequente alla sostituzione, e che però ciò non basta a fare di quest’ultimo un’alternativa valida.
È vero che ai tempi di Verdi il dramma degli ebrei esiliati fu interpretato come una chiara allusione alla condizione di Milano, in mano degli Austriaci, ma ciò non toglie che non contiene nessun riferimento specifico all’Italia o alla sua storia, – è il canto di un popolo diverso, – perciò ci si chiede quanto possa essere plausibile l’idea di farne l’Inno nazionale.
I riferimenti storici e patriottici dell’inno di Mameli a taluni paiono addirittura eccessivi e il testo, in generale, eccessivamente retorico e patriottardo, ma d’altronde è normale per un inno nazionale, anzi quelli degli altri Paesi sono spesso suscettibili di interpretazioni ben più nazionalistiche: ad esempio, il predetto inno tedesco affermava (nella prima strofa, non più cantata da dopo la seconda guerra mondiale) “Germania, Germania, al di sopra di tutto / al di sopra di tutto nel mondo”, benché questa traduzione possa risultare fuorviante, in quanto l’über alles incriminato si riferisce, nelle intenzioni dell’autore, all’importanza primaria dell’obiettivo di una Germania libera e unificata piuttosto che a una supposta superiorità della nazione tedesca sulle altre.
Altri invece leggono i riferimenti a Roma come un’esaltazione e un’invocazione dell’Impero, quasi un fascismo ante litteram: interpretazione capziosa, perché, come abbiamo detto, il significato è diverso e, del resto, non si vede come si possa pensare altrimenti data la storia dell’autore, che era seguace di Mazzini e Garibaldi e si ispirò alla Marsigliese.
Una critica meno comune, ma molto sottile, mossa da Antonio Spinosa, è che Fratelli d’Italia sarebbe maschilista, poiché non accenna minimamente a imprese compiute da donne come Rosa Donato, Giuseppina Lazzaroni e Teresa Scardi, imprese però che, almeno in parte, sono successive alla morte dell’autore.

Contenuti tratti in buona parte da: http://it.wikipedia.org/

Storia e significato dei tre colori della Bandiera italiana tra massoneria e valori della Rivoluzione Francese

Non tutti conoscono la storia della nostra Bandiera e neppure il significato dei tre colori che la compongono.
Secondo un'antica poesiola scritta nei "sussidiari" delle scuole elementari di un tempo (ma si tratta di invenzione retorica), nel vessillo dell'Italia ci sarebbe il verde per ricordare i nostri prati, il bianco per le nostre nevi perenni ed il rosso in omaggio ai soldati che sono morti in tante travagliate guerre.
Su questo tema hanno profuso rime anche poeti di fama come Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Renzo Pezzani, Ada Negri...
Davvero il verde dei prati, il bianco delle nevi e il rosso di un sangue versato tra le lacrime di un'intera nazione per duecento anni è la trasposizione allegorica del nostro Tricolore?
E' difficile identificare tra i tanti chi e come ha inventato una simile leggenda. Leggenda romantica, ma non vera. Alla luce della Storia essa appare puerile e senza senso. Può essere il tema di una filastrocca, ma è inconcepibile che una penisola frazionata in tanti piccoli stati, abbia avuto, col Risorgimento, la forza di unirsi per celebrare prati e nevai.
Nasce quindi il sospetto che l'ignoto cantore di tale favola abbia voluto nascondere una realtà ben diversa e molto più seria e drammatica. Una verità difficile da gestire quando, oggi, la storia patria reale è interamente riscritta.
La bandiera italiana è nata nel 1794, quando due studenti di Bologna, Giovanni Battista De Rolandis e Luigi Zamboni, tentarono una sollevazione contro il potere assolutista che governava la città da quasi 200 anni. I due presero come distintivo la coccarda della rivoluzione parigina, ma, per non far da scimmia alla Francia, cambiarono l'azzurro col verde (rappresentante anche il colore della massoneria).
Il significato allegorico è rimasto comunque lo stesso: un Tricolore come traguardo di un popolo che mirava ad avere Giustizia, Uguaglianza, Fratellanza. Tre obiettivi senza i quali non ci può essere Dignità, Democrazia, Prosperità.
Il nostro Tricolore riassume i naturali "Diritti dell'Uomo", le aspirazioni di tutte le genti, la volontà di chi crede nella propria nazione volta al progresso, con leggi adeguate, senza divisioni, stessi doveri e medesimi privilegi. Un paese dove non ci siano discriminazioni, ma ognuno fa del proprio lavoro una cosciente responsabilità. Dove la morale e l'etica siano guida costante per un'esistenza felice e serena.
Questo è scritto nella nostra bandiera e questo è quanto sognavano quei due studenti che l'hanno ideata e difesa sino a sacrificare la loro vita ventenne al bieco assolutismo despota dei carnefici del potere.
Forse è per questo, per tutti questi valori racchiusi in quel pezzo di stoffa, che, chi ci governa (o, meglio, dovrebbe governarci) oggi, il Tricolore non lo gradisce e lo disprezza.
Il 14 novembre 1794, appare per la prima volta come coccarda puntata sugli abiti dei patrioti nella sommossa di Bologna.
Il 18 maggio 1796, i colori di questa coccarda sono accettati da Napoleone, a Milano, e questi consegna alla Guardia Civica, alla Legione Lombarda e alla Guardia Nazionale una bandiera a strisce verticali verde, bianca e rossa. Nel corso di questa cerimonia, Napoleone specifica che questi tre colori provengono dalla coccarda della sollevazione bolognese. Infatti, dice testualmente: "Visto che loro (i due studenti) hanno scelto questi tre colori, così siano".
Il 9 ottobre 1796 (18 vendemmiaio, anno V), la Legione Italiana, emanazione della Legione Lombarda, riceve dal Bonaparte un Tricolore con la stessa composizione della coccarda di De Rolandis e Zamboni.
Il 18 ottobre dello stesso anno (27 vendemmiaio), il senato riunito a Bologna e Modena decreta che sia creata una bandiera a bande verticali con questi tre colori, simbolo della nuova Repubblica Cispadana, prima tappa di una nuova Repubblica Italiana.
Il 7 gennaio del 1797, a Reggio Emilia, i convenuti delle assise fanno proprio il nuovo stendardo e s’impegnano a che esso diventi universale.
  Ito De Rolandis

Sintetizzando, concludendo e approfondendo, la Bandiera italiana è una variante della bandiera della Rivoluzione Francese, nella quale fu sostituito l'azzurro con il verde che, secondo il simbolismo massonico, significava la natura ed i diritti naturali (uguaglianza e libertà).
In realtà, i primi a ideare la bandiera italiana sono stati due patrioti e studenti dell'Università di Bologna, Luigi Zamboni, natio del capoluogo emiliano, e Giambattista De Rolandis, originario di Castell'Alfero (Asti), che, nell'autunno del 1794, unirono il bianco e il rosso delle rispettive città al verde, colore della speranza. Si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati alla Chiesa.
La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti e catturati dalla polizia pontificia, insieme ad altri cittadini.
Avviato il processo, il 19 agosto 1795, Luigi Zamboni fu trovato morto nella cella denominata "Inferno", dove era rinchiuso insieme con due criminali, che lo avrebbero strangolato per ordine espresso della polizia, quale ennesimo delitto della Chiesa di Roma.
L'altro studente, Giovanni Battista De Rolandis, fu condannato a morte ed impiccato il 23 aprile 1796.
Napoleone la adottò il 15 maggio 1796 per le Legioni lombarde e italiane.
Il 18 ottobre dello stesso anno, il senato riunito a Bologna decreta che sia creata una Bandiera coi colori nazionali Verde, Bianco e Rosso a bande verticali, la quale divenne per i patrioti, simbolo di speranza per un migliore avvenire: con questo valore fu adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797, qualche mese dopo da Bergamo e Brescia e poi dalla Repubblica Cisalpina. Con la fusione della Cisalpina e della Cispadania, il Tricolore divenne la Bandiera della prima Repubblica Italiana e, successivamente, dal primo Regno d'Italia voluto da Napoleone. 
In quell’epoca le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all'asta con quella verde in primo luogo, talvolta orizzontalmente con la verde in alto.
A cominciare dal 1° maggio 1798, soltanto verticalmente, con asta tricolorata a spirale, terminante con punta bianca.
Nella metà del 1802, la forma diviene quadrata, con tre quadrati degli stessi colori racchiusi l'uno nell'altro. Questo cambiamento fu voluto dal Melzi (vice presidente della Repubblica Italiana dell'epoca) per cancellare ogni vincolo rivoluzionario legato alla Bandiera.
Abolito alla caduta del Regno Italico di Napoleone, il tricolore fu ripreso, nella sua variante rettangolare, dai patrioti dei moti del 1821 e del 1831.
Mazzini la scelse come bandiera per la sua Giovine Italia e fu subito adottata anche dalle truppe garibaldine.
Durante i moti del '48/'49, sventola in tutti gli Stati italiani nei quali sorsero governi costituzionali: Regno di Napoli, Sicilia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Milano, Venezia e Piemonte. In quest'ultimo caso, alla bandiera fu aggiunto, nel centro, lo stemma sabaudo (uno scudo con croce bianca su sfondo rosso, orlato d’azzurro).
La variante sabauda divenne Bandiera del Regno d'Italia fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando l'Italia divenne Repubblica e lo scudo dei Savoia fu abolito.

Oggi, la bandiera italiana è il Tricolore: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni, così definita dall'articolo 12 della Costituzione della Repubblica Italiana del 27 dicembre 1947, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana nº 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947.
Il 7 gennaio di ogni anno, la bandiera italiana è protagonista della giornata nazionale della bandiera, istituita dalla legge nº 671 del 31 dicembre 1996.

domenica 24 aprile 2011

Il 25 aprile: Festa della Liberazione, ma non da Berlusconi

Moni Ovadia: "Nel giorno dell'antifascismo, in cui ricordiamo la fondazione della democrazia italiana nella sua pienezza, con Berlusconi in piazza noi legittimiamo la sua posizione anomala e patologica. Finchè non uscirà dalla politica non potremo ristabilire la legalità democratica nel paese. Il vero grande problema è questa sinistra riformista che non fa opposizione e permette al presidente Zelig di recitare anche la parte dell'antifascista".
Da: MicroMega

La "Festa della Liberazione" ricorda la fine del periodo nazi-fascista e, appunto, la liberazione dell'Italia dalla dittatura di Mussolini (alleato di Hitler) e la vittoria dei Partigiani antifascisti che organizzarono la Resistenza per riconquistare la libertà e la democrazia.
Proprio il 25 aprile 1945, i Partigiani (con l'aiuto e l'appoggio degli alleati americani e inglesi) entrarono vittoriosi nelle principali città, liberando l'Italia e gettando le basi per una nuova democrazia.
I Partigiani erano uomini, donne, ragazzi, soldati, sacerdoti, lavoratori, operai, contadini, socialisti, cattolici, comunisti: insomma, gente di diverse idee politiche o fede religiosa e di diverse classi sociali, che avevano deciso di impegnarsi in prima persona (rischiando la propria vita) per porre fine al fascismo e fondare in Italia una democrazia, basata sul rispetto dei diritti umani, della libertà individuale, senza distinzione di razza, di idee, di sesso e di religione.

La Costituzione Italiana attuale, nata dalle idee di democrazia e di libertà degli antifascisti, fu elaborata, negli anni successivi, proprio da quegli uomini che avevano lottato contro il fascismo. Si dice, infatti, che la nostra Costituzione è figlia della Resistenza antifascista. La Costituzione della Repubblica Italiana vale anche per loro!
Come ha detto il Presidente della Repubblica Napolitano, la Festa della Liberazione è di tutti.
Certo, di tutti coloro che conoscono la storia e che sanno e riconoscono che la Costituzione Italiana è nata dalla Resistenza e dall'Antifascismo ed è intoccabile.
Chi non sa questo (o finge di non saperlo) non sa nemmeno che cosa sia il 25 Aprile e perché lo si festeggi ogni anno.
Oggi la "Festa del 25 aprile" viene chiamata anche Festa della Libertà: è un'occasione per ricordare che la libertà non è un valore gratuito che esiste automaticamente o una condizione che si mantiene da sola.
La libertà va difesa giorno per giorno: oggi soprattutto constatiamo che, nella nostra nazione, esistono persone e politici che non agiscono nel rispetto della libertà e della democrazia e tutti noi dobbiamo tenere sempre gli occhi ben aperti se vogliamo custodire questo bene prezioso che garantisce alle persone di vivere al meglio possibile.
Qualcuno (e sappiamo bene che) ha anche cercato di confondere le idee, usando la parola "libertà" e la denominazione di "Festa della Libertà" con significati che non hanno alcun riferimento ai valori del 25 Aprile, ma si rifanno solo al nome di un partito politico di corrotti, massoni, mafiosi e imputati.
Ma, come si sa, la storia del 25 Aprile è chiara e definita e quei valori sono in vigore per tutti (anche per chi li misconosce, non li condivide o per chi è ignorante di storia).